Alla scoperta dell'Isola di San Nicola, parte delle Tremiti, un arcipelago che ci stiamo esplorando grazie agli "sguardi adriatici" di Fabio Fiori
(Quest'articolo fa parte della serie "Sguardi Adriatici", vai al primo e al secondo dei racconti dedicati all'isola di San Nicola)
Dall'insondabile caos della rete o dall'imperscrutabile ordine dell'algoritmo, dopo “Le rondini” di Lucio Dalla, parte “Un oceano di silenzio” di Franco Battiato. Perfetta! per una volta. Così non mi tolgo gli auricolari e vado verso la bianca, abbagliante facciata della Chiesa di Santa Maria al Mare. Un austero capolavoro rinascimentale, completato nel 1473 per i monaci lateranensi. Apro il portone d'ingresso; buio e silenzio mi catturano. “Quanta pace trova l'anima dentro / Scorre lento il tempo di altre leggi / Di un'altra dimensione / E scendo dentro un oceano di silenzio sempre in calma”. Sono solo. Piano piano, occhi e orecchie ritrovano un equilibrio. Il buio è più nitido, il silenzio è più sonoro. La nudità delle pareti risalta la policromia del mosaico pavimentale, realizzato nell'anno Mille, al periodo delle origini benedettine. La mia attenzione va alle diomedee ai quattro angoli, simboli antichissimi e sempre rivisitati delle isole. La statua lignea di Santa Maria a Mare e la grande Croce lignea sono simboli di una millenaria fede cristiana ma anche di una fratellanza mediterranea, perché le leggende di entrambe si legano a viaggi e naufragi, dalla sfavillante Costantinopoli e nel misterioso pelago. Ma il luogo per me più spirituale della chiesa è una piccola cappella laterale, sulla destra. Un ambiente spoglio, invaso dalla luce, con pareti bianche e scrostate, come l'altare che ha ricordi d'azzurro e sfumature di verde muschio. La porticina in vetro dell'edicola sopra l'altare è aperta, dentro un vuoto enorme. Sull'altare una Madonnina plastica a mani giunte e sguardo alzato. Perfetta imperfezione.
Fuori dalla chiesa, a destra e sinistra, due bazar di souvenir deserti amplificano ancor di più il senso di straniamento del luogo. Da una porta alla sinistra, guardando la facciata della chiesa, entro nel chiostro Cistercense del XIII secolo, il più antico e severo. Al centro, in un rigoglioso verde incolto, il pozzo sulla cisterna. Sulla trabeazione la data del restauro borbonico, 1793, con al centro un bassorilievo di diomedea con nel becco un ramo d'ulivo. Passo poi nel secondo chiostro, più leggero e luminoso, quello Lateranense del 1546. A destra un elegante portico, con 28 colonne sottili in stile ionico, sormontate con capitelli floreali; a sinistra l'indaco del mare e l'azzurro del cielo, accesi dal Maestrale. In fondo, sulla sinistra dell'uscita dal chiostro, c'è un portoncino sbarrato. Sull'architrave, un'altra diomedea, questa volta con un polpo nel becco! Era l'ingresso del Teatro dei Frati, dove si insegnava la regola religiosa attraverso la recitazione: Delectando docet.
L'uscita dal chiostro è un altro passaggio obbligato dentro l'abbazia-fortezza. Un ambiente scuro, polveroso, in stato di desolante abbandono. Doppiamente doloroso per i lavori di restauro risalenti a più di dieci anni fa, inconclusi. L'aria frizzante e il sole limpido rimettono di buon umore, all'uscita sul versante settentrionale. Un ben sistemato camminamento permette di superare il profondo fossato che nei progetti dei monaci avrebbe dovuto essere scavato fino al livello del mare, di fatto dividendo in due l'isola e rendendo l'abbazia ancora più imprendibile. Sopra di me l'occhio di San Nicolò, una grande feritoia aperta nella fortificazione che sale vertiginosamente verso il cielo. Era una delle tante caditoie da cui alla bisogna si gettava acqua od olio bollente sugli assaltatori. Il Bastione è la prua dell'isola Tremiti. Oltre il fossato s'apre il Prato Asinario, la seconda isola quella che i tremitesi chiamano San Nicola. E' uno spazio selvatico, una zattera d'erbe e arbusti, di rocce e licheni, stretta dal mare. Un sentiero lungo un chilometro la percorre da sudovest a nordest. E' l'isola dei morti: una antica necropoli a metà strada, il recente Mausoleo Libico e l'ottocentesco cimitero alla fine. Nascosta al viandante è la porta d'ingresso alla Tomba di Diomede, l'eroe greco che la leggenda vuole qui sepolto. E' un tholos, cioè una sepoltura a pianta circolare di diametro di un metro e mezzo, volta bassa, scavata in uno sperone di roccia affiorante. M'inchino, per necessità e reverenza, entrando dalla piccola apertura rivolta a nordovest. Ho con me l'Iliade per celebrare l'acheo errante, il marinaio che per primo ha portato la cultura greca in Adriatico. “Allor Palla Minerva a Diomede / forza infuse ed ardire, onde fra tutti / gli Achei splendesse glorioso e chiaro”. Oggi nel cielo delle isole Diomedee non ci sono gli uccelli fedeli all'eroe ma solo pirateschi e urlanti gabbiani reali. Il cielo però è di un azzurro greco, regalo eolico, di quel Maestrale che ha riempito anche le vele dei nostos.
Il sentiero prosegue, attraversando la necropoli dove fu sepolta anche Giulia nipote di Augusto qui confinata, fino al Punta del Cimitero, un affaccio grandioso sull'oriente adriatico. Lì una quindicina di anni fa è stato realizzato il Mausoleo Libico, monumento necessario, doveroso, a ricordo di una drammatica pagina di storia italiana. Quella della deportazione in Italia di un migliaio di libici nel 1911, ufficialmente rei di resistenza alla politica coloniale giolittiana. Diverse centinaia, tra cui anche donne e bambini, morirono proprio qui sull'isola, per denutrizione o affetti di “malattia misteriosa”, che il capitano Sabellico di Alatri scoprì essere tifo petecchiale. Anche lui morì, curando quei disperati, nel marzo del 1912. Cerco di lenire nostalgie, di illuminare ombre ascoltando ancora Battiato: “Difendimi dalle forze contrarie / La notte, nel sonno, quando non sono cosciente /Quando il mio percorso si fa incerto / E non abbandonarmi mai / Non mi abbandonare mai”.
Riprendo il cammino e scendo nel cimitero, penultima tappa di questa passeggiata sull'isola dei morti tremitese. Qui tra tombe recenti e ottocentesche, si ripercorrono due secoli di storia degli isolani. Molte sono vicende di mare, come quella tragica di Pallesca Vittorio, nato il 2 luglio 1922 e morto il 12 marzo 1936. Un ragazzino di 14 anni, immagino un mozzo, che “il mare con'onda infida” travolse e uccise. Poi “ti ridonò dopo 22 giorni ai tuoi cari che seppellirono in questo sacro recinto”. Per una liberatoria catarsi scendo alla Cala del Cimitero, deserta. Piccoli ciottoli bianchi levigati dalle onde, grandi tronchi ossificati dalle onde. Un tuffo, una nuotata; acqua fresca, vita nuova.