"April" della georgiana Dea Kulumbegashvili ha vinto il premio speciale della giuria, mentre “Anul nou care n-a fos - The New Year That Never Came” di Bogdan Muresanu ha vinto il premio come miglior film della sezione Orizzonti alla 81° Mostra del cinema di Venezia
C’è sempre un premio per l’Europa del sudest nei grandi festival, soprattutto se in gara ci sono opere dalla Romania e dalla Georgia. È stato così anche alla recente 81° Mostra del cinema di Venezia, chiusasi con il Premio speciale della giuria del concorso internazionale ad “April” della georgiana Dea Kulumbegashvili e quello di Miglior film nella sezione parallela Orizzonti al romeno “Anul nou care n-a fos - The New Year That Never Came” di Bogdan Muresanu.
Nel complesso parecchi film dall’area e pure parecchie polemiche, soprattutto per l’altro georgiano “Antikvariati - The Antique” di Rusudan Glurjidze, collocato nel programma delle Giornate degli autori e tenuto bloccato a lungo dai giudici per un ricorso dei coproduttori russi e croati e proiettato soltanto nell’ultimo giorno. Peccato, ancora una volta, per le collocazioni un po’ infelici o limitative, a parte “April” che dalla sua aveva l’essere prodotto da Luca Guadagnino.
In particolare la questione riguarda “The New Year That Never Came” di Bogdan Muresanu, sì premiato in Orizzonti mentre avrebbe potuto ben figurare nella competizione maggiore e ricevere un riconoscimento nel concorso per il Leone.
Significativo che il cinema romeno degli anni 2000, affermatosi come il più vitale e originale del panorama europeo con nomi quali Cristi Puiu, Cristian Mungiu o Radu Jude, non abbia mai trovato posto nel concorso di Venezia, un’assenza che stupisce sia per le affinità tra i due Paesi sia per la qualità e il numero di opere valide provenienti da Bucarest.
Muresanu non sarà un grandissimo come i tre citati, ma conferma la bontà della scuola di Bucarest e la capacità di raccontare una pagina di storia recente tra dramma e commedia, con efficacia, ritmo e precisione di personaggi.
La pellicola descrive una vicenda corale, con diverse persone che si scopriranno legate tra loro che si muovono in parallelo, a Bucarest nelle giornate che precedettero il Natale 1989, mentre a Timișoara erano già in corso le proteste che fecero cadere il regime comunista.
La protagonista dello spettacolo televisivo di Capodanno è fuggita all’estero dopo aver registrato il programma, così il direttore della Tv nazionale e il regista devono trovare un modo per rimpiazzarla e non farla apparire in video, magari chiamando un’attrice comica che le somiglia.
Intanto due adolescenti vogliono scappare attraversando il Danubio, un’anziana non vuole lasciare il vecchio appartamento che sarà demolito (con un discorso interessante sulle ricollocazioni e la sempre attuale gentrificazione delle città) e un bambino scrive a Babbo Gelo il desiderio del padre di far morire “lo zio Nicu” (Ceaușescu), mandando in paranoia il genitore che non sa come fermare la missiva prima che sia intercettata dai servizi segreti.
Non sarà un filmone epocale, ma è un racconto molto convincente, con alcune scene molto divertenti, di uno spaccato del momento cruciale della Romania contemporanea, utile per approfondire o rievocare quelle giornate e quel passaggio decisivo. Da rimarcare l’interessante impiego del Bolero di Ravel ad accompagnare il crescendo dell’ultima parte.
Premio speciale della giuria di Orizzonti al turco “Hemme nin oldugu gunlerden biri - One of Those Days When Hemme Dies”, opera prima di Murat Fıratoğlu. Siamo d’estate in una zona agricola nel sud della Turchia. I braccianti spargono su un terreno appositamente predisposto casse di pomodori appena raccolti da tagliare e lasciare a essiccare al sole.
Tra loro c’è Eyup che lavora nervosamente, a un ritmo anche più alto dei colleghi. L’uomo sollecita a Hemme, il capo squadra, i pagamenti in ritardo, ma questi risponde di avere pazienza. Eyup insiste, ha urgente bisogno di soldi, è indebitato e non sa come fare fronte agli impegni. I due finiranno per litigare, con il bracciante che si arrabbia e si offende (sostiene che il capo ha offeso sua madre) e se ne va meditando qualche azione, anche se il fratello Ali cerca di calmarlo e gli spiega che “Hemme è uno come noi, non può niente”.
Il bisogno di Eyup è impellente e la sua giornata sembra prendere una piega negativa, soprattutto perché, mentre va al paese, gli si rompe la moto. Il protagonista incontra varie persone, come un uomo che è rimasto in campagna a coltivare l’orto e le viti “come una volta”, o un costruttore che pensa solo all’auto e a edificare ovunque case “smart” e a speculare.
Il regista racconta una Turchia in bilico tra il vecchio e il nuovo, forse ancora peggio del vecchio. Una terra assolata, agricola, ma in cambiamento, con tante costruzioni nuove che invadono i terreni agricoli, con rapporti umani e di lavoro sempre sperequati, dove è una fortuna potersi rifugiare nel proprio orto.
“April”, opera seconda della georgiana Dea Kulumbegashvili nota per il precedente “Beginning” (2021), è risultata la pellicola più dura presentata nel concorso. Un’immersione nella scrupolosità, ma pure nei fantasmi (letteralmente), nei segreti, nella solitudine e nei bui, della ginecologa Nina, che all’inizio non può impedire il soffocamento di un neonato in un parto prematuro.
Il padre del bambino accusa la dottoressa e la fa mettere sotto indagine, sebbene si trattasse di una gravidanza complicata, non registrata e non seguita da alcun medico. Bravo medico, Nina vive un profondo isolamento, non ha una relazione affettiva da otto anni, vive di momenti anche estremi, è “irrazionale” come dice il collega David e il suo comportamento si presta ai fraintendimenti e alle critiche.
Un film doloroso, girato con uno stile molto deciso e forse troppo esibito e programmatico, con lunghi piani sequenza che spesso esasperano ciò che avviene fuori campo. Alcuni passaggi sono un po’ prevedibili, lo sviluppo va un po’ per le lunghe, ma l’eccesso e l’insistenza sono un po’ la cifra dell’opera.
Ci sono anche sequenze visionarie con un corpo nudo, anziano e sfatto, che potrebbe essere un alter ego o una proiezione della protagonista, che ha un’identità dubbia, che la regista fa appena intuire con qualche elemento e inquadratura. Nina è interpretata dalla brava e coraggiosa Ia Sukhitashvili, che si era già fatta apprezzare nella commedia “Blind Dates” (2013)
Un po’ agli antipodi di “April”, e molto più nella tradizione del cinema georgiano, visivamente molto curato, pittorico, inventivo ed eccentrico, è “Antikvariati - The Antique” di Rusudan Glurjidze. Il film della regista caucasica denuncia le mire di Putin (che compare sui titoli di coda) sui paesi appartenuti all’Urss e ricostruisce la deportazione di cittadini georgiani nell’autunno 2006 basandosi sulla sentenza della Corte europea per i diritti umani.
Lado trasporta oggetti antichi, Medea è impiegata nel laboratorio di antiquariato che compra un appartamento di San Pietroburgo con dentro l’anziano e bizzarro ex proprietario, mentre la polizia russa rastrella i georgiani per le strade cittadine e i cittadini comuni ce l’hanno con i caucasici definiti “meridionali”. Glurjidze era già autrice del bel “House of Others” del 2016, molto diverso nello stile, seppure anche là ci fosse al centro una casa e l’idea di andare a vivere nella “casa d’altri”.
La regista prende i fatti di cronaca e la politica un po’ alla larga, ma poi ci arriva ed è molto chiara, per questo le pressioni russe per bloccare l’opera. Interessanti anche l’idea delle camere di controllo e la sorveglianza nel laboratorio di antichità e il fatto che Vadim, il padrone della casa, distrugga le vecchie foto e non voglia parlare del passato.
Vladimir Putin è stato forse il maggior fantasma di una Mostra popolata di tanti fantasmi diversi, fin dal film d’apertura “Beetlejuce Beetlejuce” di Tim Burton.
La presenza-assenza del presidente russo, poco mostrato ma evidentemente convitato di pietra, spicca in due documentari fuori concorso complementari tra loro sulla guerra in Ucraina.
Se le testimonianze di parte ucraina arrivate nei festival cinematografici sono numerose a partire dal 2014 e da “Maidan” di Sergei Loznitsa, quelle di parte russa sono state pressoché assenti. Colpisce così l’ottimo “Russians At War”, che la moscovita Anastasia Trofimova (nota per alcuni lavori in Siria e Iraq) ha realizzato tra i Capodanni 2023 e 2024.
Dopo un incontro casuale in metropolitana con il cinquantenne Ilya, di origine ucraina e combattente per i russi (dice di essere scappato nel 2014 quando “è iniziata la guerra civile”), la regista decide di raggiungerlo nel suo reparto nelle retrovie nella repubblica autonomista di Lugansk. Qui raccoglie le voci di altri militari, chi arruolato per patriottismo e chi per soldi (a un certo punto i pagamenti cominciano a tardare), a volte pentiti della scelta, quasi sempre consapevoli della situazione senza vie d’uscita e che si torna in Russia “solo con i piedi in avanti”, ma non hanno alternative al continuare a combattere, perché in certe circostanze conta solo il dovere.
La regista, che ha filmato senza permessi ufficiali, ha un approccio anti-militarista e pacifista e ascolta tutti, racconta che anche in Russia c’è chi trova senza senso la guerra e non teme nel chiederne la fine. I soldati parlano tranquillamente di invasione e guerra, definendola solo una volta “operazione speciale” come il mai nominato Putin vorrebbe.
Procede in maniera diversa “Songs of Slow Burning Earth” di Olha Zhurba, costruito su capitoli staccati tra loro e senza un vero filo, se non che dalla notte del 24 febbraio 2022 precedente l’attacco russo si arriva quasi a oggi.
È un riassumere eventi, dalle fughe dei primi giorni ai riconoscimenti dei cadaveri ai mutilati che provano le protesi, diviso in tanti capitoletti in diverse zone del Paese senza chiare indicazioni temporali ma con un ordine apparentemente cronologico: nel finale c’è un doppio sguardo al futuro che lascia qualche interrogativo sulle intenzioni della regista.
Rispetto a “Russians At War” si notano due grandi differenze: i funerali ucraini sono celebrati con grande partecipazione, quelli russi quasi alla chetichella; i soldati e i sostenitori di Mosca (come l’anziana che vive sulla linea del fronte) rimpiangono l’epoca sovietica i cui simboli sono onnipresenti e Lenin è un’altra presenza fantasma, mentre a Kiev si rimuovono le falci e martello superstiti dai monumenti.
L’approccio è naturalmente a favore dell’Ucraina, ma il tono non è propagandistico anche solo perché mostra il biglietto di ringraziamento e scuse lasciato da soldati russi in una casa che avevano occupato temporaneamente. Il film mostra immagini a cui ci siamo purtroppo assuefatti, ma pure altre che restano impresse negli occhi come quella d’impatto da dentro il furgone.
Se le inquadrature della Zhurba sono più curate e composte, il procedere della Trofimova, che ha lavorato prevalentemente da sola, è più incalzante e incisivo.
La guerra ai suoi inizi, dal punto di vista di una giovane coppia ucraina, incerta tra il partire e il restare, è al centro di “Honeymoon” di Zhanna Ozima, opera prima di finzione a basso budget sostenuta all’interno del progetto Biennale College.
La protagonista, l’artista Olya, mentre rifiuta un invito a stabilirsi all’estero, afferma che sostenere l’esercito ucraino non rappresenta un’escalation della guerra, perché la guerra c’è già, ma è “difendere il nostro diritto a vivere”. È un piccolo film che sconta però le limitazioni produttive e una regia un po’ acerba. Ozima cerca di combinare vari generi - l’apocalittico minimalista, il thriller psicologico, il dramma di coppia claustrofobico e l’instant movie – ma sembra lasciare le cose un po’ troppo in sospeso.
Trascurabili, se non irritanti, i due film di registi greci ma di produzione internazionale.
“Harvest” di Athina Rachel Tsangari (nota per “Attenberg”) è stato inserito inserito in concorso inspiegabilmente, se non per i nomi della regista e degli interpreti Frank Dillane e Caleb Landry Jones. Un film ambientato in un passato non precisato in un villaggio rurale dell’Inghilterra che sembra il West, una storia che fatica a ingranare e poi si rivela vuota e già vista, dentro una confezione pomposa.
Si conferma gelido, cinico e un po’ misogino (di film in film pare avercela con le ragazzine) Alexandros Avranas, noto per l’osceno “Miss Violence” (il film insensatamente premiato alla Mostra del 2013), che si è riproposto con “Quiet Life”.
Una storia di esuli russi in Svezia che avrebbe molti spunti di interesse, se non che al regista ellenico non interessa dei personaggi e neppure lo sfondo politico e sociale. Il cineasta, uno dei più cinici in circolazione, gioca con i sentimenti dello spettatore in maniera anche crudele.
La vicenda, ambientata a Goteborg nel 2018, è quella del preside Sergei costretto a fuggire con la moglie Natalia e le figlie dopo un’aggressione. Le due ragazzine sono vestite e filmate nello stesso modo di quelle di “Miss Violence” nella scena iniziale, in un appartamento che ricorda molto quello, mentre attendono la visita dei servizi sociali in previsione della sentenza sull’accoglimento della loro richiesta d’asilo.
E se non si può anticipare troppo della trama per completare il parallelo tra i due film, basti dire che qui la sorella maggiore pratica i tuffi, mentre là una ragazza si suicidava buttandosi dal terrazzo nella prima scena. E stavolta manca pure la componente di provocazione del precedente.
È un documentario di montaggio sulla beatlesmania, “Twst – Things We Said Today” del romeno Andrei Ujica, noto soprattutto per “Nicolae Ceausescu: un’autobiografia” del 2010. È l’agosto 1965 e i Fab Four arrivano a New York per due concerti allo Shea Stadium durante l’Expo.
Ujica rimette insieme le immagini dell’arrivo all’aeroporto, il delirio degli appassionati e la conferenza stampa del quartetto. Tutti insistono a chiedere se la loro popolarità stia calando, ma le immagini e le storie dicono il contrario, siamo in piena Beatles mania, come testimoniano pure le successive due parti del film, il tour del gruppo per la città in attesa dell’esibizione e la giornata di tre amiche prima di recarsi al concerto. Un lavoro di puro montaggio che ricostruisce lo spirito di un’epoca.