Con "Quo vadis, Aida", presentato alla 77° Mostra del cinema di Venezia, la cineasta bosniaca Jasmila Žbanić racconta la tragedia di Srebrenica attraverso gli occhi di una donna che lotta per salvare la propria famiglia tra dubbi e scelte drammatiche
È stato un successo di pubblico in patria e ora si prepara a correre per l'Oscar. Nonostante la situazione sanitaria e le limitazioni imposte alle proiezioni, il film bosniaco “Quo vadis, Aida?” di Jasmila Žbanić, è diventato un vero e proprio caso, in virtù anche del tema affrontato. La cineasta di Sarajevo, nota soprattutto per l'esordio “Grbavica – Il segreto di Esma” (2006), ha portato per la prima volta sullo schermo il massacro di Srebrenica nel luglio 1995.
Presentato in prima mondiale in concorso alla 77° Mostra del cinema di Venezia, dove non ha riportato premi (il Leone d'oro è stato assegnato a “Nomadland” di Chloe Zhao), "Quo vadis, Aida?" è stato acquisito per l'Italia dalle distribuzioni Academy Two e Lucky Red. Un film importante che ha richiamato nelle sale quasi 4000 spettatori nelle prime tre settimane di programmazione (lo riporta il sito Film New Europe) nonostante le restrizioni, più del totale annuale della produzione nazionale nelle ultime stagioni.
I fatti sono visti attraverso gli occhi di Aida (Jasna Djuricić), che era insegnante, lavora come interprete all'Onu e segue le trattative inconcludenti con Mladić che fa promesse false. La sede dei caschi blu è stracolma di persone che vi hanno cercato rifugio, mentre molti altri residenti del circondario premono all'esterno per entrare. Tra questi ci sono anche il marito e due figli, di 17 e 19 anni, della donna, che farà di tutto per metterli in salvo. Finché si arriva al momento fatidico nel quale gli uomini furono separati da donne, anziani e bambini, per essere trasportati via e trucidati. Aida è animata dal desiderio di salvare la sua famiglia, ma si trova ad affrontare dubbi e scelte che mai avrebbe voluto porsi. Žbanić compie un'operazione intelligente per far riflettere e ribadire come sono andati i fatti.
“Quo vadis, Aida?” è un dramma basato su una buona ricostruzione (è stato girato tra Stolac e Mostar, con solo un'immagine iniziale di Srebrenica) e diversi momenti validi, compreso un evidente riferimento a “Roma città aperta”. Un film che non vuole avere grandi guizzi, ma rigoroso e senza fronzoli, che nell'ultima parte riesce a dire molto anche sulle sensazioni provate nel dopoguerra e sulla normalità del male.
Nel concorso veneziano era presente pure l'azero “In Between Dying” secondo lungometraggio del giovane Hilal Baydarov, una delle opere più singolari della competizione. Davud vive con la madre morente e si fa domande esistenziali. In fuga dopo aver ucciso l'uomo colpevole di aver offeso la sua fidanzata, e inseguito da un gruppo di sgherri, Davud si imbatte in una serie donne legate in matrimoni infelici e cambia loro l'esistenza. Una è tenuta legata dal marito, una non riesce a lasciarlo, l'unica che ama il coniuge, l'ha visto partire per la guerra senza fare ritorno. Il regista alterna il realismo a sequenze oniriche sottolineate da musica quasi ipnotica. “In Between Dying” è un film che filosofeggia un po' senza infastidire, con una bella atmosfera, poetico, molto curato e un tocco autoriale marcato e mai gratuito.
Il premio speciale della giuria è andato a “Dorogie Tovarischi! - Dear Comrades!” del russo Andrei Konchalovsky, il più anziano in gara con i suoi 83 anni e più volte premiato a Venezia con i suoi ultimi lavori. La pellicola ricostruisce una rivolta operaia in epoca sovietica repressa e segretata dal regime.
Vincitore della 35° Settimana della critica è stato il turco “Hayaletler – Ghosts” dell'esordiente Azra Deniz Okyay. Quattro vicende si incrociano nel corso di una giornata in una Istanbul in continua trasformazione. C'è la giovane Didem che balla e perde sempre i lavori che riesce a trovare e insieme insegue la propria libertà (e per le altre donne) e c'è quello che approfitta dei profughi siriani in arrivo e del loro bisogno di alloggi. Con immagini di diverse provenienze, compreso un telefonino, la regista leva un'aspra critica contro il Paese di Erdogan, prendendo di mira anche la costruzione di nuovi edifici per “una nuova Turchia”, abbattendo i vecchi.
La stessa sezione, dedicata ai film di debutto, ha presentato pure l'ucraino“Bad Roads – Pohani Dorogy” di Natalya Vorozhbit. Un film con quattro storie che si susseguono, slegate tra loro ma accomunate dal ritrarre un'area in guerra dove si sono persi i punti di riferimento: si parte da un preside ubriaco che in auto è fermato a un posto di blocco ma ha dimenticato il passaporto, per arrivare a una donna che ha investito una gallina e non ha i soldi per risarcire i proprietari, passando per uno stupro. Una pellicola tra il tragico e il comico, pendendo verso il primo, che ricorda per struttura e stile i lavori di Balabanov e Loznitsa, ma è pure una voce personale per raccontare la violenza e l'assurdità dell'Ucraina di oggi.
Inizia con un documentario propagandistico d'epoca jugoslava sull'apertura di un centro per disabili “Oaza – Oasi” del serbo Ivan Ikić, presentato nell'ambito delle Giornate degli autori. Il filmato mostra una struttura all'avanguardia, nella quale gli ospiti potevano condurre una vita più normale. Ai nostri giorni, Marija arriva in un centro moderno, ma la situazione è tutt'altro che ideale: la giovane cerca subito di scappare, non si adatta alla nuova situazione.
Finché si invaghisce di Robert, un ospite quasi impassibile che non parla mai, e lo segue in una fuga fuori dalla recinzione. L'episodio farà ingelosire Dragana, anch'ella innamorata del ragazzo, in un crescendo di rivalità tra le giovani. Una storia divisa in tre capitoli secondo il protagonista di ciascuno, ma che si sviluppa linearmente. “Oaza” non racconta gli istituti per disabili, quanto vicende e percorso di Marija, Dragana e Robert, i loro comportamenti difficili da prevedere e il loro disagio profondo, nonostante l'assistenza. Un buon debutto, che tiene avvinti due ore, con bravi interpreti.