Una serata a Pristina. Un gruppo di persone al bar, durante i recenti mondiali di calcio. Un incontro fra giovani di Bosnia Erzegovina, Kosovo e Serbia. Un seminario sulla memoria e l'elaborazione del conflitto. Riflessioni a margine di un percorso difficile, non solo nei Balcani

19/07/2010 -  Mauro Cereghini Pristina

Ci sono tre giovani, 30 anni, di Kraljevo (Serbia centrale) che non hanno mai vissuto la guerra di persona. Ma non per questo ne sono estranei: conoscono le difficoltà dell’impegno anti-nazionalista ed il richiamo alla colpa collettiva, per quanto altri hanno fatto negli anni ‘90 in nome del “loro” popolo.

E c'è una giovane donna bosniaco musulmana, che ha vissuto l'esperienza del campo di concentramento, rinchiusa lì proprio dalle milizie serbe. Esperienza che dolorosamente ha raccontato.

Ci sono due albanesi del Kosovo. Ancora adolescenti hanno vissuto la fuga nei boschi e la vita da profughi, responsabili delle loro famiglie perché i padri erano al fronte in armi. E c'è un kosovaro serbo che combatteva su quello stesso fronte, ma dall'altra parte. E poi altri ancora.

Dodici persone in tutto, compresi Simone e Fabrizio, che conducono i quattro giorni di incontro. Si ride forte nel bar del centro di Pristina, stasera è un momento libero dentro giornate fitte di parole e pensieri. Emozioni anche, perché parlare del proprio rapporto intimo con la guerra vissuta non è mai facile, farlo davanti a persone “dell'altra parte” ancora meno.

Mi sono unito a loro durante una visita veloce in Kosovo. Sono i giorni dei mondiali di calcio, alle nostre spalle nel bar le immagini di Brasile – Corea del nord. La musica invece è quella globalizzata che troveresti in qualsiasi locale simile di Berlino, Barcellona o New York; spunta anche l’ immancabile Ramazzotti.

Al nostro tavolo piccole storie di vita s’intrecciano, racconti seri si mescolano agli scherzi. Si sprecano i “Forza Ghana”, ieri la squadra africana ha battuto la Serbia. Il calcio ha sempre a che fare con l’identità nazionale, a volte anche in forma estremistica.

Guardo le facce di Simone e Fabrizio: stanche, quasi stravolte. Da due giorni accompagnano il gruppo in un incontro di conoscenza sul lavoro di elaborazione delle memorie, che ciascuno conduce nel proprio territorio. Inevitabilmente sono finiti più volte a parlare delle storie personali, dei vissuti, delle emozioni.

Anche dei pregiudizi e delle paure, come quella dei serbi nel venire per la prima volta in Kosovo. Con la sorpresa invece di poter passeggiare liberamente in centro, cosa normale per chi conosce questa regione ogg,i ma evidentemente non scontata perfino per persone informate e libere dalla propaganda come loro.

Tanto che, pregiudizio contrario, gli albanesi si aspettavano chissà quali difensori dell’ortodossia slava, e si chiedono ora sottovoce “ma… questi sono serbi?”.

Certo, resta una diversità tra chi la guerra l’ha vissuta di persona, come gran parte dei cittadini bosniaci e kosovari, e chi invece l’ha sentita nell’aria ma senza subirla in prima persona, come i ragazzi che vengono dalla Serbia. Mi chiedo se anche questo contribuisca a rendere difficile capirsi, anche dentro gruppi come questo, gli uni a chiedere giustizia per ciò che è stato, gli altri un futuro diverso.

Gli uni a rivendicare comunque la propria identità di gruppo, appunto un prodotto della violenza vissuta, e gli altri a rifiutare qualsiasi appartenenza nazionale, con un approccio cosmopolita figlio in parte del vecchio jugoslavismo e in parte del nuovo spirito globale. Diversità che potrebbero conciliarsi, ma che se estremizzate ciascuna a sé rendono il dialogo quasi impossibile.

Non è questo il caso, anche perché Simone e Fabrizio accompagnano e smussano. E perché c’è una fiducia costruita negli anni tra i partecipanti e le associazioni con cui collaborano, tre espressioni della cooperazione di comunità del Trentino con i Balcani. Seminari simili sono stati organizzati a centinaia in questi anni da ong e istituzioni internazionali, con gruppi di donne, giovani, insegnanti, politici, magistrati, sportivi…

Non so se questo sia migliore di altri, ma vedo che viene preso sul serio, e che muove dal lavoro concreto in cui ciascuno è già impegnato. Così le parole non sono di maniera, le domande reciproche scavano nelle esperienze e nelle convinzioni di ciascuno.

Non si parte da qualche principio astratto, ma dai ricordi e dai simboli della guerra che ognuno si ritrova davanti, come i monumenti. Dal rapporto, quasi intimo, che ciascuno ha con la memoria della propria collettività.

Così qualcuno porta l'immagine di un grande memoriale e qualcuno la sua foto da bambino, l'unica rimasta dopo l'incendio della casa. Pubblico e privato si intrecciano nel ricordo dei grandi eventi, e ridare spazio alle storie personali è forse un modo per contrastare il peso della memoria ufficiale. Che poi è quella dei vincitori, cioè di chi ha preso le armi da ciascuna parte.

Mi colpisce spesso in Kosovo l'oblio cui è stata condannata l'opzione politica non armata dei primi anni novanta, i movimenti nonviolenti, la riconciliazione del sangue... Certo quella strada ha fallito e il consenso popolare è poi andato altrove. Ma è significativo che non abbia lasciato apparenti tracce nella memoria civile, e ad esempio pochi giovani conoscano oggi il nome di Anton Cetta, principale ispiratore della campagna per superare le faide interne.

La memoria ufficiale così è affidata ai monumenti in ricordo di battaglie e combattenti. Quelli che spuntano ovunque in Kosovo sono inquietanti: lapidi nere luccicanti, guerrieri con i kalashnikov, inni al trionfo e alla vendetta. Il rispetto per le vittime passa in secondo piano, il senso del dolore taciuto in nome dell’eroismo nazionale.

Le persone che partecipano al seminario, invece, corrono tutte il rischio di passare per traditori, qualcuno già lo è per i “suoi”. Non perché lavorano assieme, pur vivendo in paesi diversi della diaspora jugoslava. Quello ormai è banale, e l’interscambio nella regione seppur lentamente è ripreso. Ma perché parlano – pur in lingue diverse – ragionano e alcuni provano anche ad agire sulle cose scomode di casa propria, in primis sull’identità e la memoria collettiva.

Questioni difficili da affrontare nei Balcani come in ogni luogo che abbia vissuto tragedie collettive. Ecco allora il senso di incontri come questo, dialoghi traditori dentro le notti mondiali.