"... io è un po' che ho smesso di chiedermi il perchè. Ricerco e colleziono storie, semplicemente, per capire quanto oltre si può andare, dov'è il limite ..."
Silvia Maraone collabora con l'IPSIA, da anni presente nei Balcani con progetti di ricostruzione, cooperazione allo sviluppo, progetti di volontariato estivo per l'animazione in Bosnia e Kosovo. Mensilmente, per periodi variabili dai due giorni alle due settimane, si reca in Kosovo per seguire i progetti in atto e le vicende della comunità dei rientrati. La scorsa settimana ha girato le enclaves serbe del Kosovo, tra le quali Gorazdevac. E questa è una storia che vuole raccontare. In caratteri minuscoli ...
Agorazdevac bevo un caffè sabato pomeriggio, è il 23 agosto. dieci giorni dopo la strage del fiume.
sono in compagnia di ljubinko, ragazzo dell'enclave di grabac (area di klina), migiore studente del corso di italiano che ho tenuto ad aprile. poi c'è con me tanja, la moglie del capovillaggio di grabac, che come vuole la tradizione ha più polso lei del marito. e infine erica, che mi segue nelle mie avventure un po' folli, cercando di capire sempre il perchè delle cose.
Io è un po' che ho smesso di chiedermi il perchè. ricerco e colleziono storie, semplicemente, per capire quanto oltre si può andare, dov'è il limite. e tutte le volte che penso di averlo trovato, lo supero facilmente con una nuova storia che mi viene regalata.
in parte mi sento anestetizzata. sono stata sommersa da parole in serbo croato (bosniaco, o come lo si vuole chiamare) quando ancora lo capivo poco, nei campi profughi in slovenia. storie, parole, fotografie di parenti, televisione accesa 24 ore su 24 nelle stanze, radio. telegrammi. non sono state sufficienti le storie. e allora fotografie videocassette film.
Il mio mondo in italia, a condurre una normale vita da liceale idealista. il loro mondo. di là. e il ponte tra questi mondi. solidarietà, volontariato, raccolte, materiali, viaggi, neve e nebbia.
e allora il mio mondo in italia che non era più normale perchè era leggere, sentire, studiare, raccogliere, cercare.
Dopo la guerra, dopo il campo profughi è stato andare a cercare i nomi dei posti che sentivo nominare al campo, che leggevo sui giornali, che trovavo nei libri. sarajevo. in primis. e poi vukovar. e poi srebrenica. mostar. doboj. gorazde. bihac. knin. livno. prijedor. banja luka. visegrad...tutta l'ho girata la bosnia, su strade asfaltate e soprattutto su strade non asfaltate. e ogni posto ha un incontro, una storia.
fino a che non sono capitata in kosovo. a tappe, lentamente. perchè ero gelosa della mia terra, della mia lingua. bosanka di tuzla, mi chiamano a krupa, perchè di solito quando mi chiedono di dove sono mi spaccio per mezza e mezza. la cosa li fa ridere tantissimo.
In Kosovo invece si parla altro e c'è un'altra storia. ma adesso che la conosco di più, mi sto lentamente drogando anche di questo paese...
la storia dei serbi del kosovo la conosco per caso nell'ottobre del 2002. il progetto che ipsia ha in corso si sviluppa in diverse aree della regione. tra cui la famigerata valle del drenica. klina town. culla dell'odio albanese. posto dove lungo la strada che porta a pec, ogni casa non albanese è stata saccheggiata e bruciata. restano kilometri di macerie, che sembrano ancora fumanti.
Scopriamo che nell'area è rientrato un gruppo di serbi. a bica e a grabac. un rientro organizzato. strutturato in "go and see visit", in piani di ricostruzione, garanzie di sicurezza. lentamente circa 30 persone sono rientrate nei villaggi di origine.
l'arrivo con il furgone è lento, lungo una strada bucata e piena di fango denso e appiccicoso. ci si apre alla vista una valletta, dopo una breve salita. c'è una base militare, di stanza gli italiani. ci sono case bruciate e distrutte, una tendopoli nell'erba bagnata.
Tutto ha inizio con una sigaretta, come vuole la tradizione. il portacenere è una scatola di spuntì. siamo circondati da uomini con la barba sfatta e abiti umidi, pesanti, nell'aria greve della sala comune.
tutto ha inizio con il saluto finale di nebojsa: grazie per la vostra visita, ne riceviamo tante, poi nessuno si rifà vivo. gli rispondo, allora a domani per un caffè. la tradizione vuole così. non può starci cigara senza kafa e viceversa.
Il giorno dopo torniamo, in effetti, e comincia la nostra relazione con il villaggio di bica e di grabac.
gli spieghiamo chi siamo, una piccola ong che porta avanti piccoli progetti, gli parliamo del volontariato estivo, dei bambini, gli parliamo della bosnia... tutte cose così lontane. loro non hanno luce, non hanno acqua, non hanno strada e non possono muoversi. prospettive future? chissà, forse a luglio verranno le famiglie, se si potrà andare a scuola. a scuola a shtupel, il villaggio albanese di fianco. dove prima andavano a scuola insieme.
Passano mesi. fatti di visite frequenti, di portare vestiti, di bere caffè e grappa. viene la primavera, è più facile muoversi. da novembre inoltrato le persone sono entrate nelle case ricostruite dalla thw. sono case piccole, tutte uguali. all'interno niente, una stufa, un tavolaccio fatto di assi e panchette, un letto a castello. in pratica tutto quello che c'era dentro le tende. perché i gestori della ricostruzione, i fautori del rientro, i salvatori dell'umanità (e in primis della propria anima sporca) cioè noi occidentali e la nostra politica di colonizzazione, li abbiamo fatti sì rientrare e gli abbiamo ricostruito le case (e ce ne fosse una cui si chiudono tutte le porte o in cui funzioni il bagno...) ma poi, del dentro ce ne siamo fregati.
questo è solo un esempio.
Ne ho raccolte centinaia di chicche in questi mesi. la scorta della kfor per mitrovica che non c'è perché mancano le autorizzazioni. le promesse di costruire delle piccole imprese agricole. la volontà di far entrare in dialogo e spingere alla riconciliazione per permettere ai bambini di andare a scuola...
a bica e grabac rimane solo il fango, le parole vuote, le visite di cortesia.
Il funzionario dell'osce che vuole prendere la jeep per fare 20 metri, perché ha le scarpe "design italiano" e non vuole che gli si rovinino nel fango (citazione letterale). il colonnello della nato in visita che se ne va dando 20 euro in mano all'unico bambino del posto. bambino arrivato da mitrovica nel pomeriggio e restato 4 ore sotto la pioggia ad aspettare che la camionetta kfor li portasse da un villaggio all'altro. mancava l'autorizzazione. fino a che non abbiamo preso la macchina e non li abbiamo portati noi.
Loro, i salvatori del mondo con la camicia stirata e le scarpe di moda, che arrivano in questo buco del mondo senza interprete e sono stati fortunati che c'ero io, così come sono fortunati quando vengono quelli dell'unmik, così come quando viene chicchessia, tutti a fare delle visite e senza mai portarsi un interprete.
va avanti così da mesi. prima avevo più tempo, adesso meno. sono stata a un certo punto giù per due settimane, a tenere un corso d'italiano. sono diventata la loro "profesorica". non hanno imparato niente, questi uomini che vivono da un anno da soli e salterebbero addosso a qualunque essere di sesso femminile nel raggio di 300 metri (quanto hanno a disposizione per muoversi, perché poi c'è il posto di blocco) ma ci siamo divertiti moltissimo.
due realtà diverse bica e grabac. bica, tutti maschi e con le case sparpagliate qua e là lungo una valletta attraverso la quale corre una strada da dove ogni tanto gli albanesi lanciano urla e sassi. e poi grabac, arroccata su una collina, tutte le case una vicina all'altra, con delle donne che gestiscono l'economia domestica. sono arrivate anche le mucche, finalmente. grazie a progetti dell'acted, gestiti dall'equipe dei serbi di mitrovica.
con l'estate sono finite le età delle promesse. i bambini e le famiglie che stanno in serbia sono tornati, ma adesso rivanno via. perché non c'è la scuola, naturalmente. perché non c'è lavoro. abbiamo fatto i campi di animazione con volontari italiani che giocavano con i bambini, mentre gli adulti ci guardavano. ma adesso per tutti è ora di andare via. soprattutto dopo gorazdevac.
il pomeriggio di sabato 23 agosto arriviamo a grabac per fare una visita, per vedere come stanno. lì una donna nervosa aspetta la solita scorta per poter andare nel suo paese. tanja mi si avvicina e mi chiede: dopo non è che le potete dare un passaggio verso pec? le rispondo che non c'è problema. vedo che la donna ha fretta, le chiedo se vuole andar via subito. mi dice che se fosse possibile sarebbe meglio, le dico, ma deve andare a pec o altrove? a gorazdevac, mi dice. le chiedo quanto disti da pec, perché di preciso non lo so, scopro che è lì attaccato. andiamo. saliamo in macchina e chiedo anche a ljubinko se vuol venir con me. lui è un ragazzo di 20 anni, gentilissimo, timido, molto intelligente. il mio miglior allievo. poi vedo tanja sull'uscio di casa e le dico: dai vieni anche tu. paola mi si avvicina, è un po' preoccupata e mi chiede se voglio che qualcuno mi accompagni. le dico: beh, mica sono da sola... effettivamente non penso mai che attraverserò villaggi e posti albanesi con serbi in macchina. o quantomeno, non me ne faccio un problema. erica viene con me. così come quella volta a pristina e prizren con drago e boban. le dico: non ti è bastata l'avventura? ci vuoi riprovare? quell'umorismo che si fa quando in fondo si ha di che essere nervosi.
gorazdevac mi rimbalza in mente dai titoli dei giornali che leggevo in montengro, in vacanza a budva. "sono rimasti a curare le tombe" riferendosi ai serbi del kosovo. sconfitta dell'occidente, sconfitta dei piani di pace, sconfitta della nato. e vergogna infinita per il dolore.
il clima era pesante. triste. si respirava anche in montenegro che in qualche forma ne è estraneo, ai fatti della polveriera, un clima di tensione che avevo percepito a betlemme, due settimane prima della guerra. parole mormorate, televisioni accese, giornali che soffiavano venti di odio e vendetta...
la strada da grabac a pec è stata una sorpresa e una ferita per chi avevamo in macchina. per la prima volta dopo il 1999 tanja e ljubinko ritonavano a vedere klina. la città nella quale lei lavorava, nella quale lui andava nei locali. riconoscevano posti, case serbe, ristoranti serbi che ormai non sono più tali. riconoscevano persone e strade... e tutto questo dicendo: ci godiamo la macchina. non siamo abituati. di solito viaggiamo nelle camionette e negli autobus, ma i sedili e la musica sono diversi. un doppio trauma. la normalità sotto il sedere, quello stare in un'automobile e non in un cassone e il proprio passato che scorre fuori dal finestrino. per poi uscire dalla città e versare lacrime e preghiere nel vedere tutte le case distrutte e la chiesa ortodossa abbattuta.
tutto questo calvario non può che finire sul golgota di gorazdevac, dove lasciamo andelka, la donna che non è di gorazdevac, ma che vive lì, perché il suo villaggio non esiste più né sulle mappe né sulla strada che ci ringrazia per la gentilezza. ljubinko a questo punto mi chiede se possiamo andare a salutare il suo kuma, il suo padrino, che sta qua.
vivono in non so quante persone in questa casa circondata da animali da cortile, con delle bambine silenziose che guardano me e erica. la donna di casa macina il caffè, per gli ospiti. gli uomini parlano. si parla inevitabilmente del fatto. del fiume. non serve dire altro. "il fiume, quel fiume che di nostra proprietà, a un chilometro da qua, dove c'ero anch'io e se non arrivavano i militari ancora mezzo minuto e sarei stato ucciso anch'io. maledetta politica, è una puttana. la colpa è degli americani, che hanno dato i soldi a quelli, gli albanesi. io ne avevo tanti di amici albanesi, di una cosa adesso mi rammarico, non aver imparato la loro lingua. comunque quelli non sono uomini. non è un uomo uno che ammazza un bambino come un cane. e i soldati che stanno qui a difenderci, lo sai che uno di loro si è strappato i gradi e se n'è andato via piangendo? e io cosa posso dirti allora, cosa devo pensare... se anche loro che sono qui per la nostra sicurezza prendono e si strappano i gradi, io a che cosa posso pensare, ormai?"
parole, parole. discorsi confusi: "non è colpa del popolo, gli uomini sono tutti uguali, hanno tutti lo stesso sangue. e' una delle guerre peggiori, è stata una guerra di religione, tra le peggiori".
parole che rimbalzano nel secchio del pozzo, perché in questo villaggio circondato da soldati centinaia di persone senza libertà che "non possono aprire neanche un locale perché tanto lo fanno saltare in aria subito" non hanno l'acqua. "però i militari della kfor agli albanesi hanno costruito la piscina proprio qua, fuori dal villaggio, l'hai vista? pensa, se l'avessero costruita anche per noi i nostri bambini non avrebbero dovuto andare a quel maledetto fiume, a farsi ammazzare perché faceva caldo"...
si chiude questo pomeriggio con la domanda: "e se l'avessimo fatto noi a loro, una cosa del genere, ci pensi?"
lo saluto, gli dico "cuvaj se" (abbi cura di te). mi risponde: "pazi cu" (sarò attento).
torniamo a grabac. tanja di nuovo lancia un lamento davanti alla chiesa distrutta, i miei amici italiani e senada, la ragazza kosovara che contro tutti e tutto viene con noi nella tana del lupo, sono rimasti lì ad aspettarci, sono stati in compagnia dei maschi ubriaconi del villaggio, che non hanno altro da fare se non bere. aspettare la sera, dormire e risvegliarsi, di nuovo, nel fango, tra le case ricostruite, le scorte della kfor, dare l'acqua alla mucca. e aspettare.
Silvia Maraone
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