Michele Nardelli, dell'Osservatorio sui Balcani, era proprio ieri a Belgrado. "Questo assassinio pesa come non ci si può immaginare sulla vita delle persone oltre che sul futuro politico di questo paese e di questa regione nel cuore dell'Europa".
Lungo la strada che da Cacak sale verso Belgrado l'intensificarsi di pattuglie della polizia ci preannuncia la notizia che di lì a poco Radio B92 ci darà: il premier serbo Zoran Djindjic è stato assassinato. Poi ovunque posti di blocco, soprattutto in uscita dalla metropoli balcanica in cui arriviamo provenendo da Pec-Peja, in quel Kossovo ancora formalmente regione serba il cui destino politico amministrativo è ancora conteso. Lì, come Tavolo trentino con il Kossovo, abbiamo avviato la realizzazione di un centro culturale nel quale lavoreranno uno accanto all'altro giovani albanesi, serbi, rom a dispetto di un'aparthaid che la guerra del '99 ha solo ingigantito.
Quel complesso lavoro di rianimazione sociale, politico e culturale che segnala l'urgenza di scollinare gli anni '90, nei quali invece ci sembra di ripiombare quando la radio ci annuncia la proclamazione dello stato di emergenza.
Questo assassinio pesa come non ci si può immaginare sulla vita delle persone oltre che sul futuro politico di questo paese e di questa regione nel cuore dell'Europa. Che si risveglia senza una delle figure chiave del processo di transizione, dopo due elezioni presidenziali annullate e con la propria ingombrante memoria di fronte al Tribunale de L'Aja. Ma pesa sulla vita quotidiana di cittadini stanchi e provati da anni di ubriacatura nazionalistica, isolamento, embargo e infine guerra. Pesa nelle parole di Ljubisa che ci dice della sua stanchezza di vivere nel terremoto e che si ritrova, ironia della sorte, ad invocare normalità di fronte ad una nuova drammatizzazione. Lo percepisci nel silenzio irreale che ci circonda a dispetto del caos a cui questa grande città ci ha ormai abituati. Lo vedi anche nelle poche persone che si riuniscono verso sera davanti alla sede del governo serbo lungo la Knez Milosa, dove uno sparuto pellegrinaggio ci dice che non sembra esserci più la forza di reagire, fra paura e rassegnazione.
L'inquietudine di non uscire da un incubo che dura da troppo tempo. E si percepisce che siamo di fronte all'onda lunga di quel 5 ottobre di due anni fa, quando Milosevic venne cacciato a furor di popolo. Un onda di ritorno che ti dice che i conti con quel pezzo di storia non sono ancora stati fatti, che quel vecchio potere - che una spallata aveva costretto alle dimissioni - è per numerosi aspetti ancora lì, al di là dei molti, troppi voti di Seselj, in culture politiche tutt'altro che messe da parte, rinvigorito da nuove alleanze politico mafiose prosperate all'ombra della criminalità economico finanziaria, che in questa prima calda giornata primaverile fa ripiombare questa nazione nell'inverno duro e incerto dei Balcani.
Perché è in questo intreccio che va ricercata la genesi dell'assassinio di Djindjic, a prescindere da quale possa essere stato l'effetto scatenante fra quelli che in queste ore si sussurrano nelle strade di Belgrado, la grande operazione che sarebbe scattata proprio ieri contro la criminalità organizzata, le mancate protezioni verso quei pezzi di apparato che nei giorni cruciali di due anni fa contrattarono il loro non intervento con la propria immunità verso L'Aja, le nuove alleanze politico criminali che in un contesto di destabilizzazione permanente trovano l'humus principale nella proliferazione dei propri affari, lo scontro latente sulla questione del Montenegro che a questi intrecci politico criminali è tutt'altro che estraneo, l'incertezza sul futuro del Kossovo che lascia aperta una conflittualità che investe tutti i Balcani meridionali...
Fili scoperti di una questione balcanica che la guerra dei dieci anni ha solo resi più perversi e pericolosi, e che il contesto internazionale non aiuta di certo. E' la vicenda irachena che si riverbera sui Balcani, nell'ormai palese scontro fra chi pensa all'Europa come orizzonte e prospettiva politica di tutta l'area balcanica e chi invece esorta ad affidarsi ad altri interlocutori, meno esigenti e più 'contrattabili', come clamorosamente è accaduto con il sostegno bulgaro e macedone all'avventura bellica degli Stati Uniti in Medio Oriente. E che hanno buttato un pesante macigno nel processo di unificazione europea.
Non serve fare dietrologia per comprendere come tutti questi fattori trovino nell'assassinio di Djindjic possibili conferme. Sicure, ad ogni modo, sono le conseguenze in termini di nuova instabilità per la Serbia e per tutta l'area balcanica di cui la Serbia rimane un paese chiave, nell'ulteriore deregolazione politica ed economica, nel rendere oltremodo complesso un processo di integrazione europea che troppi interessi oggi rende più impervio che mai. E di paura ed annichilimento per questa gente che di questo nuovo capitolo della moderna vicenda balcanica avrebbe fatto volentieri a meno.
Ripartiamo da Belgrado, fra posti di blocco e la sensazione di pesantezza che un'innaturale normalità non riesce a nascondere. A Prijedor ci aspettano per discutere di elaborazione del conflitto e di sviluppo locale, ma dopo l'assassinio di Djindjic non sarà più la stessa discussione.
Michele Nardelli
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