Gerusalemme

Gerusalemme

L'altro ieri a Istanbul si è tenuta una riunione straordinaria dell'Organizzazione per la Cooperazione Islamica - fortemente voluta dal presidente turco in cerca di leadership nel mondo islamico - a seguito della decisione USA di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele

15/12/2017 -  Dimitri Bettoni Istanbul

“Gerusalemme Est sarà per sempre la capitale dello stato palestinese”. È questa la dichiarazione che i 57 paesi membri dell'Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) hanno deciso di contrapporre alla decisione del presidente americano Donald Trump di formalizzare il riconoscimento dell'intera Gerusalemme come capitale di Israele. Una decisione che a Tel Aviv aspettavano da tempo, ma che ha scatenato una durissima reazione da parte del mondo islamico.

La posizione dell'Organizzazione per la Cooperazione Islamica

L'OIC ha riunito le proprie voci il 13 dicembre, al termine di una riunione straordinaria ad Istanbul fortemente voluta dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, e si è dichiarata pronta a perseguire una soluzione pacifica e giusta che si fondi su due stati, la cui fattibilità dipende direttamente dalla spartizione di Gerusalemme.

L'OIC si appella alle Nazioni Unite poiché la decisione americana a suo avviso costituisce una chiara violazione del diritto internazionale ed è contraria a ciò che indicano le risoluzioni adottate dal Consiglio di sicurezza dell'ONU. Da parte dell'ONU si è espresso il coordinatore speciale per il processo di pace in Medio Oriente, il bulgaro Nikolay Mladenov, “particolarmente preoccupato per la possibile esplosione di violenza” in risposta alla mossa di Washington.

Mladenov ha assicurato che il Consiglio di sicurezza considera Gerusalemme “parte integrante dell'identità” palestinese e israeliana.

Alla riunione dell'OIC ha partecipato anche il leader palestinese di Al-Fatah Mahmud Abbas, che ha dichiarato: “Non possiamo più accettare alcun ruolo statunitense nel processo di pace: hanno dato prova della loro completa partigianeria in favore di Israele”. Intenti sulla cui praticabilità sorgono dubbi legittimi: estromettere dal processo di pace una delle potenze mondiali con potere di veto al Consiglio ONU ha il sapore di un'impresa impossibile.

Ma la mossa più forte dell'OIC è il richiamo rivolto ai propri paesi membri ad essere pronti a tagliare le relazioni diplomatiche ed economiche con quei paesi che vorranno seguire l'esempio americano. La volontà di imporre sanzioni metterà a dura prova la determinazione dell'OIC, che trova spesso unità d'intenti nelle dichiarazioni, ma fallisce al banco di prova. Dovrà superare quelle rivalità interne ed interessi particolari che hanno sempre minato la sua efficacia d'azione e che, più in generale, sono alla base del trascinarsi da decenni della questione israelo-palestinese.

Il ruolo della Turchia

Convocando questa riunione dell'OIC, il presidente turco Erdoğan ha ribadito la candidatura della Turchia al ruolo di guida della comunità islamica, nel solco di ambizioni mai spente. Per sostenere questa candidatura la Turchia ha rivendicato il proprio impegno concreto in Palestina, attraverso gli oltre 70 progetti a Gerusalemme Est e in Cisgiordania e le 10mila tonnellate di aiuti inviati in questi anni, secondo una nota del Direttorato generale delle fondazioni (istituzione turca che si occupa della gestione delle fondazioni religiose).

Ong islamiche turche come la Insani Yardim Vakfi (internazionalmente nota come IHH) sono lo strumento principe usato dalla Turchia per operare nei territori palestinesi, a volte finendo di essere protagoniste di vicende che hanno pesantemente condizionato le relazioni turco-israeliane. È stato il caso, ad esempio, dell'operazione “Mavi Marmara”, che condusse alla rottura dei rapporti diplomatici tra i due paesi nel 2010.

Per guadagnarsi la leadership del mondo islamico, prima che con Israele Erdoğan dovrà fare i conti con le dinamiche interne all'OIC. Tradizionalmente il mondo arabo non vede di buon occhio una guida non-araba. Soprattutto, le relazioni della Turchia con alcuni importanti paesi, si pensi all'Egitto di Al-Sisi o all'Arabia Saudita, sono tutt'altro che rosee.

Se lo scontro con gli egiziani affonda le radici nel sostegno di Ankara alla Fratellanza Musulmana che Al-Sisi ha scacciato dal governo con i carri armati, nei confronti dei sauditi è forte lo scetticismo circa un vero impegno di Riyad per la causa palestinese. Anzi, in molti ritengono che Trump non avrebbe mai mosso il proprio passo su Gerusalemme senza essersi prima garantito l'acquiescenza della monarchia saudita.

Erdoğan al momento concentra il fuoco contro Usa ed Israele, arrivando a definire quest'ultimo “uno stato terrorista”, con cui le relazioni verranno presto tagliate. Relazioni che il presidente stesso aveva voluto faticosamente ricostruire soltanto l'anno scorso, non senza mormorii e mal di pancia da parte dell'elettorato più conservatore dell'Akp.

Ankara era però sempre più isolata a livello regionale e la priorità era uscirne ad ogni costo. Oggi Gerusalemme è l'occasione per rinsaldare i legami con quei paesi con cui ideologicamente è più facile andar d'accordo, piuttosto che continuare ad ingoiare il rospo e mantenere legami con Israele alla luce del sole pagandone il prezzo elettorale.

I rapporti Ankara-Tel Aviv

Da Tel Aviv il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che quanto a temperamento non è secondo ad Erdoğan, ha prontamente replicato che “non intende ricevere lezioni di moralità da un leader che bombarda i villaggi curdi, arresta giornalisti, aiuta l'Iran ad aggirare le sanzioni internazionali e sostiene organizzazioni terroristiche a Gaza”, andando a toccare in una sola frase tutti i nervi scoperti di Ankara.

Il riferimento di Netanyahu è fin troppo esplicito nei confronti di Hamas, che nella Turchia ha trovato un rifugio politico e un sostegno pari se non superiore a quello iraniano.

Eppure i due paesi convivono con questo vertiginoso pendolo delle proprie diplomazie soprattutto grazie ad un approccio pragmatico alle proprie esigenze. Basti pensare al lungo lavoro sul progetto del gasdotto che vorrebbe collegare la gigantesca riserva israeliana Leviathan, scoperta nel 2010, alla regione mediterranea di Hatay nella Turchia meridionale.

Gli israeliani cercano compratori e uno sbocco rapido sul mercato europeo, i turchi sono affamati di gas, cercano di diversificare i loro approvvigionamenti e ambiscono a fare della Turchia un hub energetico mondiale.

Ora lo sviluppo del progetto, proseguito anche durante gli anni di gelo dopo il caso della Mavi Marmara, subirà gli scossoni delle dichiarazione al fulmicotone di Erdoğan, ma il presidente turco pare intenzionato a capitalizzare il più possibile la situazione, probabilmente convinto che i progetti energetici possano essere momentaneamente accantonati e ripresi tra qualche tempo.

I riflessi sulla situazione interna turca

Erdoğan in questo momento vuole ottenere il massimo da Gerusalemme non solo in Medio Oriente e presso la comunità islamica internazionale, ma anche a casa propria.

L'intera società turca si è schierata a favore della causa palestinese, inclusi quei gruppi della sinistra socialista o liberale che solitamente si oppongono senza mezzi termini al governo AKP.

Erdoğan si presenta come il leader della causa e intende riguadagnare quella credibilità incrinatasi del 2016. Per questioni di ideologia e coerenza, Erdoğan non avrebbe mai potuto permettersi di ignorare la questione di Gerusalemme.

Il governo turco e lo stesso presidente sono al momento al centro di scandali nazionali e internazionali. Si pensi all'accusa di aver sostenuto l'evasione delle sanzioni iraniane nel processo Zarrab in corso negli Stati Uniti. Oppure all'accusa rivolta dal partito repubblicano CHP ad Erdoğan e familiari di aver spostato milioni di euro su conti offshore sull'Isola di Man, un caso su cui la magistratura starebbe indagando.

Per Erdoğan la disputa su Gerusalemme diventa allora un'occasione d'oro per dirottare l'attenzione pubblica, magari screditando nel frattempo gli Stati uniti che sono bersaglio del governo ormai da mesi.

L'analisi audio

Ascolta l'analisi di Dimitri Bettoni "Istanbul: su Gerusalemme, vertice OIC risponde a Trump" andata in onda il 14 dicembre su Radio InBlu