Diritti umani

L'Helsinki Committee bosniaco si spacca sugli algerini

11/02/2002 -  Anonymous User

I maggiori rappresentanti del Comitato di Helsinki bosniaco si scontrano. Il governo bosniaco ha violato o meno i diritti dei cittadini algerini consegnati agli USA?

Macedonia: difficile e pericoloso denunciare i diritti umani violati

11/02/2002 -  Anonymous User

La relazione, curata dal Comitato di Helsinki-Macedonia, sul rispetto dei diritti umani nel Paese, ha subito una dura campagna denigratoria. Sotto accusa Mirjana Najcevska, direttrice della sezione Macedone del Comitato di Helsinki. Un'intervista.

Bosnia Erzegovina: carcerati in sciopero

07/02/2002 -  Anonymous User

Sciopero nel carcere di Zenica. I detenuti protestano per le pessime condizioni di vita. Anche il Comitato di Helsinki denuncia lo stato dei carceri bosniaci. Le autorità competenti rispondono: "mancano i finanziamenti".

Presevo, Bujanovac, Medvedja: un'indagine sul rispetto dei diritti umani

22/01/2002 -  Anonymous User

Presentato un report annuale redatto dal Comitato per i Diritti Umani con sede a Bujanovac.

Bosnia Erzegovina: sfratti, ritorni e case per chi vuol restare

17/01/2002 -  Anonymous User

In Bosnia Erzegovina rimane cruciale la questione delle proprietà immobiliari illegalmente occupate. Continuano gli sfratti ma è reale il problema di rendere disponibili alloggi alternativi per chi si ritrova senza una casa.

Bosnia Erzegovina: ad ottobre le prime elezioni senza l'OSCE

08/01/2002 -  Anonymous User

Si terranno il 5 ottobre 2002 le prime elezioni gestite dalle autorità bosniache. Ed i responsabili affermano che i preparativi sono già in corso.

Bosnia Erzegovina: donne ai margini

03/01/2002 -  Anonymous User

Ancora molti i "diritti oscurati" delle donne in Bosnia Erzegovina. Emerge da un rapporto recentemente reso pubblico dal Comitato di Helsinki.

A Mostar l'Accademia della Tolleranza

01/01/2002 -  Anonymous User

In una città ancora divisa un'accademia dove insegnare la tolleranza. Il progetto partirà nel 2005.

Bosnia-Erzegovina: ogni giorno minacciati sei giornalisti

30/12/2001 -  Anonymous User

La difficile situazione dell'informazione in Bosnia-Erzegovina. La libertà d'espressione delle proprie opinioni non è certo garantita, ed anzi subisce minacce giornalierie nonostante siano passati oramai sei anni dalla fine della guerra.

Serbia/Kosovo: liberato Albin Kurti

21/12/2001 -  Anonymous User

Liberato dopo due anni di carcere uno dei leader del movimento studentesco albanese.

Forum cooperazione: la retorica dei diritti umani

20/12/2001 -  Anonymous User

Continua la riflessione sull'essere e fare cooperazione. Uno scritto profondo e provocante di Claudio Bazzocchi su come la retorica dei diritti ha oscurato - anche nella solidarietà - l'analisi sociale ed economica dei conflitti.

I musulmani slavi dei Balcani

17/12/2001 -  Anonymous User

Predrag Matvejevic in un suo articolo per "Le Courrier des Balkans" affronta il tema della comunità musulmana nel Sud Est Europa. Avanguardia di una possibile espansione islamista in Europa? Lui ci spiega perché non è così.

Dalla guerra non nasce giustizia

15/12/2001 -  Anonymous User

Promosso un appello per rilanciare le iniziative a favore della pace. Perché la guerra non può portare giustizia.

Bosnia Erzegovina: giornalisti sotto controllo

14/12/2001 -  Anonymous User

Non è una novità nei Balcani come dimostrano le recenti rivelazioni sulle persone controllate sotto il regime Tudjman in Croazia. Ma suscita scalpore avvenga nella Bosnia degli Accordi di Dayton. L'Apel, un sindacato di giornalisti, chiede chiarezza.

Giornaliste di Radio B92 premiate

11/12/2001 -  Anonymous User

A Svetlana Lukic e Svetlana Vukovic un premio per chi, in questi anni, ha attivamente contribuito alla promozione dei diritti umani.

Venezia: l'Osservatorio al Salone dell'editoria di pace

06/12/2001 -  Anonymous User

L'Osservatorio sui Balcani parteciperà sabato e domenica al primo Salone dell'editoria di pace. Un modo per incontrarci e conoscerci da vicino.

La Bosnia tra nazionalismi locali ed errori internazionali

28/11/2001 -  Mauro Cereghini

Uno sguardo disincantato sulla presenza internazionale in Bosnia Erzegovina nell'intervista a Joseph Marko, professore universitario austriaco, da quattro anni giudice costituzionale della Bosnia Erzegovina.

Riesumazioni e ritorni

27/11/2001 -  Davide Sighele

Ritornano le minoranze e cominciano a vivere nuovamente luoghi che per anni erano rimasti abbandonati. E così riemergono i corpi ed i crimini della pulizia etnica. Il difficile ritorno alla normalità in Bosnia Erzegovina.

Rom città chiusa

20/11/2001 -  Anonymous User

Un anno passato tra una comunità di rom Rudari, di origine rumena ma già stanziali in ex-Jugoslavia, a Roma. Un documentario ne denuncia le condizioni di vita.

La difficoltà di una libera informazione

14/11/2001 -  Anonymous User

Un'interessante panoramica sui media in Republika Srpska e un resoconto dei maltrattamenti inflitti ai giornalisti indipendenti. Testo in inglese.

Caschi bianchi, sentiero di nonviolenza che attraversa i Balcani

13/11/2001 -  Anonymous User

Servizio civile all'estero per obiettori e volontari: il progetto di Caritas Italiana, le esperienze di tre giovani obiettori.

Bosnia-Erzegovina: a Prijedor tragico ritrovamento di altre fosse comuni

16/10/2001 -  Davide Sighele

Prijedor, una delle città simbolo della pulizia etnica, tristemente famosa per i campi di concentramento di Omarska, Keraterm e Trnopolje. Descritti dai responsabili serbo-bosniaci per crimini contro l'umanità quali campi di "smistamento" e di "passaggio" di croati e bosniaco-musulmani che venivano poi espulsi dai territori del nord della Bosnia, furono nella realtà luoghi dove si compirono i più efferati crimini della pulizia etnica. Moltissime persone tra quei reticolati di filo spinato vennero seviziati, torturati ed uccisi.
I fatti di Prijedor furono descritti da un'indagine illuminante dell'Human Rights Watch/Helsinki pubblicata nel gennaio del 1997 dove si denunciava come molti dei responsabili delle pulizia etnica fossero ancora in città e non solo restavano impuniti, ma addirittura ricoprivano cariche importanti e di potere. Seguirono una serie di arresti da parte della IFOR/SFOR e Prijedor iniziò a vivere in un'atmosfera diversa e più favorevole al cambiamento dove i moderati poterono iniziare a governare a scapito dei partiti nazionalisti.
I tragici fatti di Prijedor, descritti in modo drammatico da testimoni e sopravvissuti, continuano ad avere pesanti conferme. Secondo informazioni avute dalla Commissione per il ritrovamento di scomparsi della Bosnia Erzegovina, negli ultimi mesi sono state identificate nella municipalità di Prijedor altre fosse comuni contenenti i corpi dei molti non-serbi vittime della pulizia etnica nella primavera-estate del 1992. Tre di esse sono state rinvenute nel complesso minerario di Ljubija, una presso il cimitero principale di Prijedor, una a Kozarac ed una nella Lijeva Obala, quartiere di Prijedor prima della guerra abitato quasi esclusivamente da bosniaco-musulmani e raso letteralmente al suolo durante le operazioni di pulizia etnica. La più grande è quella trovata presso la miniera di ferro di Ljubija dalla quale sono stati estratti i resti di 372 vittime.
Si tratta dei corpi delle vittime delle esecuzioni nei villaggi di Kozarac ed Hambarine e dei campi di concentramento di Omarska, Keraterm e Trnopolje che al termine della guerra, per evitare fossero scoperti dalle organizzazioni internazionali, vennero sotterrati in fosse comuni. I lavori di riesumazione sono durati circa tre settimane. Gli esperti hanno trovato anche una quarantina di documenti personali in buono stato che faciliteranno l'identificazione delle vittime.
E ritornano alla mente i racconti di alcune donne di Kozarac, divise dai loro figli e mariti li videro allontanarsi stipati su alcuni autobus. Per l'ultima volta. Gli stessi autobus secondo dichiarazioni di alcuni cittadini di Omarska furono visti dirigersi verso le miniere di Ljubija e tornare vuoti. Questi nuovi ritrovamenti non sono che una tragica conferma.

IDPs nel sud della Serbia

11/10/2001 -  Anonymous User

The outcome of the conflict over Kosovo reversed the flood of refugees in the opposite direction. The horror the international public felt over the scale of the exodus of Kosovo Albanians and the relief generally felt upon the return of most of them to Kosovo left little room for sympathy for those who had to leave Kosovo after the Albanians returned. These people, generally termed non-Albanians, in practice mostly Serbs and Romany started leaving Kosovo as soon as the war ended. Although they have been advised to stay and promised protection by KFOR and UNMIK, the fact that (apart from some places in northern Kosovo such as the town of Mitrovica), they had to live in virtual ghettos, made many choose departure. The statistics justify this decision. Upon KFOR's arrival, in the period June 1999 - December 2000 at least 932 non-Albanians were found missing or proven kidnapped. In the year 2000 alone in Prizren 121 non-Albanians were missing; in Gnjilane 120 persons; in Pristina, the figure is 142.(1) Importantly, and unlike in the villages, Serbian violence against the Albanians was minimal in these bigger towns. Therefore the kidnappings do not seem to be the righteous revenge of the victims; rather, they are a part of a planned intimidating action with the single message: "Leave!"
Those Serbs who have left are not termed refugees but 'internally displaced persons'. But their fate is equal to or worse than the fate of those coming from Bosnia or Croatia. According to UNHCR there is a total of 211,300 registered IDPs (the Serbian authorities claim about 50% more, other humanitarian organizations mention the number of 230,000), out of which 60,000 are Roma(2), whereas the rest are mostly Serbs. This totals to more than 700,000 refugees and IDPs altogether, which makes Serbia a host to the most refugees in Europe. The urgent requirements for IDPs for this year only are over $20 million.

The city of Nis, which hosted a moderate number of refugees from Bosnia and Croatia (much fewer than Belgrade or Novi Sad) is now virtually flooded with people from Kosovo. A casual look at licence plates on cars during the rush hours shows a substantial presence of vehicles from Kosovo. The cars with plates from Pristina, Gnjilane, or Prizren themselves differ - from new Audis to battered old Yugos. And here the story of the different conditions of the IDPs begins.
The total figures for IDPs show that around 50% of the refugees have their own accommodation or live in rented flats (96,801 of the registered IDPs)(3) . In more precise numbers, according to a recent survey "most of IDP families in Serbia (37%) live in rented accommodation, 31,5% in collective centres, 24% with friends and relatives and 6,4% at home" (4). Among them, a minor proportion is very rich. The richer ones had fewer problems accommodating. These people have sold their property in Kosovo at very high prices to the Albanians, and now they live in Serbia as members of the upper class. A glance through the window as this text is being written reveals a Golf 4 and an Audi A8 with the licence plates 'Pristina'. The family also owns a comfortable five-room flat. Such examples, though relatively rare, breed contempt in many locals. This is especially so given that most of the richer newcomers were avid supporters of Milosevic's policy and senior officials of his party in Kosovo. The same policy and the same party that initially caused all the trouble. Once the trouble began - they fled, with the money. And, to make the situation worse, they retained the excessive pride of being Milosevic supporters and they still boast about it on the street.

The rest of the group living on their own are the former Kosovo Serb middle class. These people live in rented flats, and try to make ends meet every month. Their situation is not desperate - since most younger ones have found jobs here and they at least have something to eat: about 61% of Serbian IDPs work in state firms and they are on a payroll: the explanation is easy - most of them used to work in state firms in Kosovo, and upon their arrival to Serbia proper they remained officially employed. But they hardly get any pay cheques in reality, so they try to manage themselves. Nobody knows their exact number since they are reluctant to register as IDPs. But their real problem is how to fit in the new environment. They stick together, as if in clans, and they seldom mix up with the locals. The locals, on the other hand, are also reluctant to remain friends with their compatriots from the south. In downtown Nis, the once immensely popular café known as 'The Pyramid' is now rented by Serbs from Kosovo. Hardly any local ever visits the place anymore. Even more so after a recent shooting incident involving gangs formerly based at Pristina, now stationed in Nis. Distrust at the Kosovo Serbs is all-present, as they are widely (and often unfairly) seen as stern Milosevic supporters who thus contributed to the entire poverty that befell the country. Nobody seems to care - neither the international community nor their own people.
The worst is, naturally, in the camps. Most of them are located on the ends of the roads, in deserted hostels, schools and gyms, far away from the eyes of the local population. Even those nearer big cities are still quite distant from the eyes of the locals. On the outskirts of Avala mountain, near Belgrade, there is an old mountaineers' rest home turned into a camp. Its capacity is 40, but 150 people with 57 children from the Kosovo village of Suva Reka use it as a shelter. In the beginning, they were often visited by members of the Serbian Orthodox Church, Serbian Refugee Committee, even by politicians. Now, hardly anyone comes. Each of them gets a quarter of a loaf of bread and a cooked meal for lunch. For anything more, such as social aid and employment opportunity, they have to manage themselves.(5) Near Kraljevo, about 300 people were put up in an elementary school last summer, only to be literally thrown out in September, since they angered the local parents who wanted the building to be used for its intended purpose.(6) Some good ideas come from international organizations. In Kragujevac, for example, ACT (Action by Churches Together) put up greenhouses near a collective centre. They have been tilled by IDPs, and the deal was that those who worked could retain 50% of the income (about $50 a month, which is close to the average monthly salary in Serbia), whereas 50% was used to provide food to the rest of the IDPs in the camp.

In south Serbia, IDPs are sometimes settled in the places already occupied by Bosnia and Croatia refugees, provided there is some room left. Such is the case in Nis, where some are put up in old hotels 'Park' and 'Serbia'. There are also new facilities, occupied exclusively by IDPs, such as 'Sport centre' Vranje, motel 'Atina' Leskovac, motel 'Spring' Bujanovac, The New Kindergarten Bujanovac, Collective Council Zitoradja etc. When these were filled up, the newcomers were put up even in some battered roadside barracks, which had once been temporary facilities for the workers on the roads.
The condition of these people is a bit different from those from Croatia or Bosnia. On one hand, they are not technically refugees, and their original and present locations are formally in the same country. Therefore, for purely political reasons, they are treated as if they were just about to get back to Kosovo any moment, so they are denied even the right to another employment, the right 'real' refugees have.(7) As for social aid, it is practically nonexistent. Those in collective centres get poor meals daily (provided by Serbian Refugee Committee, financed by foreign NGOs), whereas those living in private arrangements get humanitarian packages monthly. The criteria for getting these have been drastically changed lately, so that today only those younger than 18 or older than 60, as well as those with the proof of disability may continue receiving those packages. The brighter side of the story of IDPs from Kosovo, especially ethnic Serbs, is their overall vitality and ability to self-organize. Contrary to, for example, many Croatia refugees in collective centres, some of whom have not stepped on the urban territory for 5 years, ex-Kosovo Serbs are well organized, loud and determined to fight for their rights. They have many associations, and they organize joint actions, especially when negotiating with the Government or foreign NGOs. Such is the Association for the Search for Missing and Kidnapped Persons from Kosovo, based in Nis.

There are many NGOs dealing with IDPs in south Serbia. The programmes are usually those of integration, such as the current ICS project (52% of ICS' funds are aimed at refugees, and 48% at IDPs). These projects are further divided into psychosocial ones, and 'economic' ones. The former deal with mental recuperation and workshop-based activities for young people, whereas the latter offer small loans for starting up business (some pilot programs currently offer small loans amounting to 1.000 DEM)(8). The Danish Refugee Council (DRC) is currently offering the 'quick impact' programme. IDPs are offered 10 chickens per family so that they could start up small poultry farms. There are too many interested, so this offer is limited to families with more than 6 members. For those intending to stay, COOPI (Cooperazione Internazionale) is offering building material. The deal is as follows: the host gets free material to finish his or her house, on condition he or she is willing to host an IDP family in the house for the next two years. This is similar to what International Rescue Committee from USA has been doing all these years. Many are apparently interested.
As for repatriation programmes, there are virtually none as yet. The rumour is that from September onwards, International Relief and Development (IRD) from USA will start 'go and see visits' similar to what UNHCR has done in Croatia lately. The idea is that IDPs should be allowed free trips to their places of origin, where they will be able to see for themselves what condition their homes are in. Some might decide to stay. However, having the overall situation in Kosovo in mind, this is still more fiction than reality.

Obviously, the condition of internally displaced persons in Serbia is not pleasant. They are neglected by their Government for political reasons, they are often scorned by their compatriots for their defiance and excessive pride, they are hated to death by Kosovo Albanians, and they seem to be at the end of UNMIK's and KFOR's priorities. For the time being, all they have is their own wit and some help of international relief organizations. We can only hope this will change soon.


Note:

1 The figures are given courtesy of Fund for Humanitarian Law, Belgrade. Complete listings with personal information are available on request.
2 According to Mr. Dejan Markovic, the Union of Roma Students, for the year 2000.
3 Figures courtesy of ICS Nis.
4 Source: International Federation of Red Cross and Red Crescent, Serbia section.
5 Data taken from the authoritative weekly "Nin".
6 Data from CNN, September 2000.
7 Swiss Agency for Development and Cooperation has recently published a booklet advising refugees and IDPs of their rights, with specific reference to the right to employment. Available on request.
8 Courtesy of Tamara, ICS Nis.

Il ritorno dei profughi in Croazia

11/10/2001 -  Anonymous User

I dati

I dati sui profughi rientrati in Croazia forniti da UNHCR e ODPR (rispettivamente, l'ufficio dell'Alto Commissariato per i Rifugiati e il Dipartimento governativo per i rifugiati e gli sfollati) parlano di circa 125 mila persone in totale. Sulla base di un'indagine compiuta tra i rappresentanti della comunità serba e tra le organizzazioni nongovernative che si occupano dei profughi rientranti o ritornati (Milorad Pupovac, Presidente del Consiglio nazionale serbo di Croazia, Jovica Vejnovic, segretario generale del Consiglio nazionale serbo - SNV e Ljubo Manojlovic, segretario generale del Forum democratico serbo) le cifre riportate sono abbastanza corrispondenti al dato formale, ma vanno prese con riserva: infatti un quarto circa dei profughi - in massima parte cittadini croati di nazionalità serba - torna soltanto per ottenere i documenti croati, vendere la proprietà e partire per altri paesi o sistemarsi nella parte serba della Bosnia ed Erzegovina o talvolta nella stessa Serbia. Dunque, rispetto alle cifre presentate, il ritorno effettivo riguarda il 75% dei casi.
La maggior parte dei rientrati proviene dalla Federazione Jugoslava, soprattutto dalla Serbia. Molto minore invece è il numero di quanti arrivano dalla Bosnia ed Erzegovina, dove i rifugiati possono ancora vivere praticamente indisturbati nelle case della popolazione di nazionalità musulmana o croata. Questo fatto si spiega con le differenti politiche attuate dal nuovo governo della federazione bosniaca e dal governo della Repubblica Serba di Bosnia, caratterizzata quest'ultima da inerzia ed indifferenza. Il governo centrale bosniaco - a composizione socialdemocratica e civica - favorisce una politica del ritorno molto attiva, come mi hanno confermato anche Jadranka Milicevic ed altri dirigenti del Centro per il ritorno dei profughi di nazionalità serba e musulmana in Bosnia orientale, durante una visita a Gorazde alla fine di giugno. Le garanzie di legge sono dunque diventate realtà nelle zone sotto il controllo delle autorità centrali di Sarajevo, mentre in quelle controllate dal governo di Banja Luka ancora non c'è un ritorno rilevante. Pochissimi sono poi i profughi fuggiti che ritornano dai paesi occidentali, a parte rari casi di persone che hanno perso lo status di rifugiati e non sono riusciti a trasferirsi in Canada o Australia.

Le difficoltà del rientro

Un primo problema di rilievo collegato al ritorno sono le procedure burocratiche molto complicate e lente richieste dalle ambasciate e dagli uffici consolari croati nei paesi di rifugio, specialmente a Belgrado. Un secondo problema che rallenta il ritorno è quello delle denunce contro molti rientrati di essere criminali di guerra, denuncia che fa scattare il procedimento abituale di arresto ed il conseguente processo penale che spesso si conclude con una condanna. E' molto difficile definire il grado di fondatezza delle accuse, ma pare che oltre il 50% si basino su denunce false.
I costi del ritorno sono pagati in gran parte dalle organizzazioni umanitarie internazionali. Il governo croato partecipa alla ricostruzione delle case distrutte della popolazione serba rientrante, specialmente in Slavonia orientale, ma con un finanziamento in percentuale insignificante. La ragione di questo atteggiamento è spiegata con le difficoltà finanziarie in cui si trova tutto il sistema statale. Un ulteriore problema molto grave è legato alla presenza dei profughi croati provenienti dalla Bosnia, e in misura minore anche da Vojvodina e Kosovo, che vivono nelle case dei serbi rientranti. Spesso le autorità tollerano questa occupazione delle case, e così molti profughi ritornati non possono riavere le loro proprietà e vivono in case di familiari o prese in affitto.

L'atteggiamento verso i profughi rientrati

Ci sono infine i problemi politici del contesto ambientale in cui si ritorna. Non sono stati raccolti dati precisi sull'atteggiamento della maggioranza croata verso i profughi rientranti di nazionalità serba. Ma secondo quelli disponibili si può dire che gli atteggiamenti prevalenti siano l'indifferenza, e in misura minore - ma molto più forte nelle zone del ritorno - l'avversione in quanto elemento di disturbo. Le opinioni raccolte su questo punto sono discordanti: Pupovac, durante un colloquio del 12 luglio, mi dice che il problema non sta nell'atteggiamento della popolazione croata che vive nelle zone di ritorno, ma nella passività e nella mancanza di azioni concrete da parte delle autorità statali. Al contrario per il sindaco di Vojnic Branko Eremic - membro del SDP, anch'egli profugo tra il 1995 e il 1997 - i problemi maggiori ai rientranti li creano una parte dei croati residenti nelle zone del ritorno, a loro volta spesso rifugiati da altre terre. Si tratta secondo Eremic di cittadini facilmente manipolati da parte della destra radicale croata, che credono nel HDZ e nel HSP e rifiutano la convivenza. Il futuro però sta solo nella ricostruzione della fiducia interetnica e della sicurezza, condizioni necessarie per il ritorno della vita nelle zone della ex-Krajina (Vjesnik, 6.7).
Un ragionamento simile lo fa anche il presidente del partito popolare serbo (SNS) e sindaco di Donji Lapac, Milan Djukic; per lui la convivenza è l'unica via d'uscita. I serbi hanno imparato la lezione della storia, specie di quella recente, e non c'è più spazio per l'esclusivismo nazionale e per una nuova omogeneizzazione etnica. Ma il problema più serio resta la politica del governo croato verso queste aree: non si fa niente per riattivarne l'economia e la vita sociale. E vittime di questa passività non sono soltanto i serbi, ma anche i cittadini croati del posto. Le autorità ad esempio non vogliono spiegare a questi croati che devono liberare le case serbe. Per via di tutti questi motivi non è possibile dire quanti profughi ci si può aspettare che tornino nel prossimo futuro: forse non tornerà più nessuno, conclude Djukic (sempre da Vjesnik, 6.7).

Vedi anche:

UNHCR Croazia

Bosnia: aumenta il numero dei minori abbandonati

22/09/2001 -  Anonymous User

Non si conosce l'esatto numero dei ragazzi abbandonati in questi ultimi anni, ma è certo che questo numero sia aumentato. La situazione è preoccupante sia nella Federazione sia in Republika Srpska, dove il problema della sistemazione dei nuovi orfani e dei bambini abbandonati è alquanto grave.
In Bosnia Erzegovina la gestione degli orfanotrofi è a carico degli uffici di assistenza sociale, che versano in condizioni economiche molto precarie "Solo quest'anno abbiamo accolto 35 nuovi orfani, ma per fortuna 25 sono già usciti, alcuni sono tornati a vivere nella propria famiglia, mentre altri sono stati adottati" ha dichiarato Amil Zelic, direttore della Casa dei bambini - sinonimo di orfanotrofio - "Bjelave" di Sarajevo, che in questo momento accoglie 60 ragazzi.
Anche a Banja Luka, città principale della Republika Srpska, la Casa dei bambini "Rada Vranjesevic" accoglie un alto numero di minori. "Tra i 120 minori attualmente accolti vi sono sia neonati che ragazzi di 17 anni, di tutte le nazionalità" informa Danilo Pirjanac - direttore del centro di accoglienza "ed alcuni di loro vivono tra queste mura da prima della guerra". Danilo Pirjanac ha sottolineato che i problemi economici sono tanti, innanzitutto legati al fatto che i comuni di provenienza dei ragazzi sono obbligati a pagarne il soggiorno presso l'orfanotrofio che li ospita, e che con la politica fiscale attuale - male organizzata - il funzionamento delle strutture di accoglienza è pessimo.
"Non è migliore nemmeno la situazione dell'orfanotrofio di Tuzla" ha aggiunto la direttrice Avdija Hercegovac "che offre ospitalità a 33 minori per la maggior parte neonati abbandonati per la strada o provenienti dalla Clinica della città".
Nella zona della Bosanska Krajina, vengono abbandonati una media di due neonati al mese, che poi vengono trasferiti al cosiddetto "Dom" di Kulen Vakuf . Come informa il direttore di questo centro, Admir Ljescanin, i 60 bambini accolti nel Dom hanno tutti meno di 5 anni di età. Al compimento del quinto anno di età i bambini vengono trasferiti all'Orfanotrofio di Sanski Most oppure ad altri orfanotrofi decentrati.. Rispetto alle cause di una percentuale così alta di abbandoni, emerge che tra le partorienti vi sono molte minorenni e donne che hanno subito uno stupro. Nei primi nove mesi del 2001 i ragazzi adottati sono stati 40, ma purtroppo quelli nuovi sono di numero ben superiore a coloro che trovano una famiglia adottiva. I centri sociali non riescono a risolvere i molteplici problemi finanziari e ultimamente è alquanto diminuito il numero delle organizzazioni umanitarie che li sostenevano. Ecco perché con la trasmissione "Humana Televizija" emessa il 14 settembre dalla televisione di Stato, è stato lanciato un appello a tutti i cittadini affinché diano il proprio contributo in aiuto a tutti gli orfanotrofi della Bosnia Erzegovina.

Traffico di vite dall'Albania

07/09/2001 -  Anonymous User

L'associazione Save the Children, ha pubblicato in questi giorni il rapporto "Child Trafficking in Albania," realizzato in collaborazione con l'Organizzazione internazionale per le migrazioni e l'International Catholic Migration Commission. Denunciando l'assenza di statistiche ufficiali e significative sul fenomeno, la ricerca realizzata dal 1998 al 2001, si affida all'indagine sul campo e alle testimonianze dirette delle vittime. Secondo il rapporto, almeno il 60 per cento degli albanesi "trafficati" a scopo di sfruttamento sessuale, sono minori. Più della metà vengono ingannati con la promessa di un lavoro, mentre il 18 per cento delle vittime ha subito un sequestro. Una conseguenza allarmante della paura del traffico in Albania é il precipitoso calo del numero delle ragazze che dai 14 anni in su, frequentano la scuola superiore. Il rapporto è risultato importante, al fine di portare allo scoperto questa triste situazione in Albania e si auspica possa tradursi in cambiamenti nelle politiche di governo e nell'opinione pubblica che avranno un effetto sulla limitazione nel traffico di vite umane.

Macedonia: 'La polizia abusa della popolazione albanese'

06/09/2001 -  Anonymous User

L'organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch accusa la polizia macedone di violazioni dei diritti umani, assassinio di civili inermi, distruzione di case a cannonate. I polizziotti macedoni tra il 10 e il 12 agosto compirono massacri durante l'assalto a Ljuboten, un villaggio a maggioranza albanese ritenuto base dei ribelli dell'Uck. Secondo un rapporto dell'organizzazione le truppe della polizia macedone - un corpo militare, dotato di armi pesanti e blindati - hanno ucciso sommariamente sei civili, bruciato abitazioni e portato il terrore a Ljuboten, apparentemente per vendicare due attentati nei quali erano morti 18 soldati macedoni. Inoltre, nel bombardamento di Ljuboten prima dell'assalto sono rimaste uccise tre persone, e un decimo abitante del villaggio è morto in carcere per sospetta tortura.

Genova vista dai Balcani

31/07/2001 -  Michele Nardelli

Mentre gli otto signori della Terra si riunivano nel cuore blindato di Genova, in Macedonia le armi riprendevano il sopravvento sul dialogo. Quasi ad avvalorare l'idea che in fondo i Balcani siano "altro" rispetto ai processi della globalizzazione, un'area di crisi certamente nell'agenda del G8 ma rispetto alla quale l'impegno e il disimpegno delle maggiori potenze industrializzate del pianeta venisse misurato sul piano militare piuttosto che nella malcelata idea che in quell'area ognuno gioca per sé.Un mondo a parte, per usare l'espressione di Gustaw Herling, rimasto tale anche dopo l'89 per la funzionalità della destabilizzazione ai processi di accumulazione senza regole e di finanziarizzazione dell'economia. Oppure per non turbare schemi consolidati e pigrizie culturali.
Il fatto è che nel tempo della globalizzazione i tradizionali punti cardinali hanno assunto un significato diverso, il mondo non è più diviso fra nord e sud, fra paesi ricchi e paesi poveri o impoveriti. Nella "globalizzazione reale" si sono delocalizzate le disuguaglianze e le grandi contraddizioni del presente per cui il sud è nel nord e viceversa, est e ovest si confondono (nel rincorrere il mercato, tanto per fare un esempio). E dentro questa nuova dislocazione a-spaziale e a-temporale delle economie (ma per non sbagliarsi sostenuto da un accentuato controllo politico e militare nelle aree considerate strategiche), il sud est europeo assume un ruolo tutto particolare (e indicibile), tutt'altro che favorevole alla prospettiva dell'integrazione europea.
Di questa partita, che fa dei Balcani uno dei simboli della modernità, non sembra affatto esserci consapevolezza. Evidentemente, dieci anni di guerra e di deregolazione selvaggia nell'est europeo non sono serviti a mettere a fuoco il significato profondo di quegli avvenimenti.
Un ritardo di analisi che sembra prevalere anche nei commenti che dai paesi dell'area balcanica vengono sul summit di Genova, dall'atteggiamento che emerge dai media bosniaci, quasi a rivendicare col cappello in mano la possibilità di essere parte di un processo del quale non ci si accorge di essere (ahimè) protagonisti; all'approccio quasi rancoroso dei media croati, dopo aver preso atto che la quarantena durerà ancora a lungo, affidandosi nel giudizio sul vertice del G8 - non senza ipocrisia - alla critica vaticana verso il mondo dei ricchi; al più maturo e distaccato atteggiamento dei media serbi, dove prevale una lettura più politica e fortemente critica verso la natura di una globalizzazione concepita come strumento di delegittimazione delle sovranità nazionali.
Ne esce un quadro che se riflette molto bene gli stati d'animo dei contesti nazionali, non sembra percepire che nei Balcani la globalizzazione è il presente ed ha la faccia che abbiamo conosciuto nella tragedia balcanica di questi anni. Una riflessione che deve investire anche lo stesso movimento "no global", che purtroppo poco ha coinvolto finora i possibili interlocutori del sud est Europa.
Eppure nei Balcani esistono già gruppi e associazioni della società civile che in questi anni si sono attivati sul piano del dissenso alla guerra e alle politiche di regime, della difesa dei diritti dei gruppi socialmente ed economicamente più deboli, della difesa dell'ambiente, benché solo una piccola rappresentanza di essi partecipi alla rete che da Seattle a Genova ha raccolto le molte anime critiche verso questa globalizzazione. Qualcosa dunque comincia a muoversi, tanto che negli ultimi giorni in Croazia si è costituito il movimento HAG anti-global.
Anche nel ragionamento sui temi della globalizzazione è dunque possibile immaginare un percorso comune "dal basso" che rompa l'isolamento dei Balcani dall'Europa e dal resto del mondo. E anche a partire da quest'ultima considerazione nasce la proposta di collocare qui, in una delle grandi capitali dell'est europeo, una delle prossime sessioni del World Social Forum.

Fonti: Lino Veljak da Zagabria, Ada Sostaric da Belgrado, Dario Terzic da Mostar

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22/06/2001 -  Anonymous User

Il membro del Comitato generale del Partito pensionati
della Republika Srpska, Dusan Prica, ha lanciato un

Ordinaria globalizzazione

16/06/2001 -  Michele Nardelli

C'è un luogo dove le dinamiche della globalizzazione si esprimono in forme anticipatorie tanto da farne uno snodo emblematico di indagine sulla post modernità. E che si tende ad ignorare, un po' perché la rimozione è il tratto caratteristico del nostro rapporto con questa parte d'Europa tanto diversa e ricca di civiltà e intrecci culturali, un po' perché non rientra negli schemi semplificati ai quali ci ha abituato il '900.

La lettura degli avvenimenti balcanici degli ultimi dieci anni come il prodotto di arcaici risentimenti nazionali ed etnici, quanto meno superficiale, ha contribuito a non far cogliere appieno il segno di questa moderna tragedia nel cuore dell'Europa. Certo, dieci anni di guerre non si spiegano senza una base ampia di consenso ed il richiamo nazionalistico ha avuto esattamente questa funzione. Così il disegno di una nomenklatura che decide di succedere a se stessa, può anche essere considerato il colpo di coda nell'agonia dei vecchi regimi, ma questa semplificazione non aiuta certo a capire.

C'è qualcosa di terribilmente moderno nelle vicende che hanno segnato i Balcani degli anni '90, che ha a che vedere con le dinamiche della globalizzazione nella crisi degli stati, nel prevalere della dimensione finanziaria dell'economia, nel controllo dei corridoi strategici fra l'Europa, il Caucaso e l'Oriente, nella sperimentazione dei più sofisticati sistemi d'arma e nell'intreccio fra deregolazione e neoliberismo. Uno scenario nel quale non possiamo non rispecchiarci.

Anche le maschere di questo tragico giuoco, che hanno interpretato al meglio il ruolo loro assegnato di croupier di un'immensa area off shore dove l'unica regola è la corruzione, assomigliano in maniera inquietante a certe maschere di casa nostra. Come dovrebbe far riflettere che a certe cancellerie occidentali personaggi come Milosevic fossero più funzionali di Kostunica, Karadzic di Dodik o di Ivanic, Tudjman di Racan, e così via.

È come se con la fine del bipolarismo si fosse aperta un'enorme voragine in grado di funzionare come fattore di attrazione di illimitati traffici ed affari, dove allocare i santuari dell'accumulazione finanziaria. Il che dovrebbe far riflettere sulla natura di chi ha vinto la partita del secolo scorso, come del resto sull'annebbiamento delle coscienze lasciato in eredità dai regimi.

Non è affatto casuale che gli industriali del nord est si riuniscano non a Treviso ma a Timisoara, in Romania, laddove 7203 imprese italiane imperversano nello sfruttamento di manodopera a costo zero, nell'assenza di regole né ambientali, né tanto meno sociali. O che i Balcani siano diventati lo snodo dei traffici più criminali, armi, droga, sigarette, per non parlare del traffiking di donne e bambini, del riciclaggio del denaro sporco, in un intreccio fra economia legale ed illegale dai contorni sempre più sfumati.

Così come non è per nulla casuale che i paesi dell'est europeo stiano diventando la pattumiera di un modello di sviluppo immorale, dissipativo ed insostenibile. All'eclatante decisione del parlamento russo di trasformare la Siberia in un'immensa discarica nucleare, corrispondono i mille episodi, solo in minima parte conosciuti, di trasformazione dei vecchi siti minerari di quella che un tempo era la Jugoslavia in altrettanti depositi di scorie tossiche e radioattive provenienti da ogni parte del mondo.

Deregolazione e povertà, poteri mafiosi e corruzione, sono gli ingredienti attraverso i quali l'altra metà dell'Europa viene inclusa ed esclusa al tempo stesso. Un immenso casinò, dove si gioca sul presente e sul futuro di un'umanità annichilita dalle macerie del comunismo e delle guerre, comprese quelle "umanitarie", compreso il "circo umanitario" che spesso le segue, altrettanto invasivo ed insostenibile. Pensare che non ci ricada addosso è solamente irresponsabile.
La globalizzazione non è un'astrazione ideologica, è il nostro presente. Capirne gli effetti è importante quanto contestarne le rappresentazioni.