Un'editoriale pubblicato nei giorni scorsi su Koha Ditore, il quotidiano più letto in Kossovo, a firma del suo vice-direttore Agron Bajrami. Traduzione a cura dell'Osservatorio sui Balcani.
La conferenza risalente al 1999 tenutasi nel castello reale di Rambouillet ha offerto numerose lezioni utili per gli annunciati colloqui tra il Kossovo e la Serbia; offre lezioni per i serbi, per i kossovari ma anche per la comunità internazionale.
"In passato abbiamo provato a proteggervi anche con la forza. Non abbiamo avuto successo perché ci siamo dovuti confrontare con una grande potenza" ha affermato il Primo Ministro serbo Zoran Zivkovic durante il funerale dei due ragazzi di Gorazdevac.
Questa messaggio, ritrasmesso per giorni dai media serbi, pretende essere una descrizione "attendibile" della recente storia degli eventi in Kossovo; in realtà è solo la brutta copia di una posizione ideologica promossa durante il regime di Milosevic.
Il messaggio del Primo Ministro della Serbia è chiaro: la guerra in Kossovo, per difendere la sicurezza dei serbi, essendo stata una guerra di "difesa" è legittima. Inoltre la frase di Zivkovic fa comprendere come il Governo da lui guidato sarebbe pronto a fare la stessa cosa anche oggi ma non può farlo perché esiste una "grande potenza" che lo impedirebbe.
Ai tempi in cui il Parlamento serbo si sta preparando ad adottare una dichiarazione sul Kossovo - anche quest'ultima un clone dell'arsenale retorico dell'epoca di Milosevic - il messaggio di Zivkovic fa paura, almeno per due ragioni.
Innanzitutto la frase è stata pronunciata alla vigilia dell'inizio dei negoziati tra Belgrado e Pristina. La giustificazione di quanto accaduto nel 1999 e della repressione che è poi sfociata in crimini di guerra mentre altri parlano di "trattative distese" per risolvere "innanzitutto questioni pratiche" non rappresenta certo nua posizione costruttiva. Ed inoltre favorisce coloro i quali sono interessati a far fallire i negoziati ancor prima che inizino.
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In secondo luogo se mai il dialogo tra Pristina e Belgrado partisse, anche se si è dichiarato che i negoziati si concentreranno esclusivamente su questioni tecniche nell'interesse reciproco, questi ultimi senza dubbio solleveranno un dibattito in merito alle questioni politiche e storiche che hanno portato al ritiro dei serbi dal Kossovo.
Il messaggio di Zivkovic - assieme ad un documento recentemente presentato dal vice-Premier Covic, al memorandum della Chiesa Ortodossa serba ed alla recente dichiarazione del Governo serbo - piazza la posizione negoziale serba sullo stesso estremismo che aveva caratterizzato i piani fascisti dell'Accademia delle Arti e delle Scienze che poi Milosevic ha cercato di implementare e sulle posizioni di altri "patrioti serbi".
I kossovari certo non sono sorpresi da questo ma sono invece gli internazionali a Washington, Brussels e New York insieme al neonominato SRSG (capo dell'amministrazione UNMIK) Harri Holkeri che rischiano di uscirne frustrati. In ogni caso la storia "fabbricata" a Belgrado rischia di far fallire l'inevitabile e indispensabile processo di dialogo che dovrà portare ad un accordo politico ed alla riconciliazione tra serbi ed albanesi. L'obiettivo attuale di Belgrado - in parte simile a quello del Presidente della Serbia Milan Milutinovic durante i negoziati di Rambouillet e Parigi - è di far apparire gli albanesi responsabili per il fallimento del dialogo. Ma quello che dobbiamo ricordare è che diversamente dal 1999 in Francia i Paesi occidentali ed in particolare l'Unione Europea hanno un approccio positivo nei confronti della Serbia, a prescindere dalla posizione serba sul Kossovo.
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Come accaduto a Rambouillet è ancor oggi presente il rischio di scontrarsi con differenti concezioni di libertà e vittoria da parte degli attori politici sulla scena del Kossovo.
Come avvenuto in Francia nel 1999 anche oggi il rischio per gli albanesi non viene dalla mancanza di consensus su alcune scelte fondamentali ma dal desiderio sempre presente di individualizzare la vittoria.
Da molto tempo l'approccio comune dei politici albanesi è stato: "Qui non vi era libertà, sono stato io a portarvela". Ma per fare andare le cose avanti i rappresentanti del Kossovo devono smettere di usurpare il patriottismo. Se non per rispetto della verità almeno per rispetto del Kossovo stesso e di Skanderberg.
Agron Bajrami - Koha Ditore
Vedi anche:
- Kossovo: morti dove si costruiva la pace
- Morti di Gorazdevac: un macigno sulla strada del dialogo
- Ballo sulle tombe. Inizio secolo
- Conferenza stampa del nuovo rappresentante Onu in Kosovo