Come atteso anche in Bosnia Erzegovina imperversa la pandemia. In vigore stato d’emergenza e coprifuoco. Riaffiorano i ricordi della guerra e si teme che il sistema sanitario locale non regga
Mentre giungevano notizie drammatiche prima dall’Italia, poi dalla Slovenia e dalla Croazia, e infine dalla Serbia, noi a Sarajevo non eravamo ancora pienamente consapevoli di quello che stava accadendo. A dire il vero, ci siamo sentiti fieri quando la Vijećnica di Sarajevo è stata illuminata con i colori della bandiera italiana, un segnale sicuro che non tutto è perduto e che a Sarajevo c’è ancora spazio per solidarietà ed empatia.
Poi pian piano si è iniziato a parlare della possibilità di mettere la città in quarantena; i voli in partenza dall’aeroporto di Sarajevo venivano cancellati uno dopo l’altro: prima quelli per le principali città europee, poi quelli per la penisola arabica, infine lo scorso venerdì sul tabellone dei voli in partenza erano rimaste solo tre città: Stoccarda, Colonia e Istanbul, e il giorno successivo, sabato 21 marzo, il tabellone era vuoto. Isolamento.
Le strade di Sarajevo si erano già svuotate. I sarajevesi – forse spinti dai ricordi di guerra, che ancora oggi occupa un posto centrale nella memoria collettiva – prima si erano recati ai centri commerciali, acquistando prodotti disinfettanti, farmaci a base di paracetamolo, limone e carta igienica. Anche il contenuto della mia borsa era simile: non sono molto propenso a fare scorte, forse perché penso che questa epidemia sia anche una sorta di risposta della natura a tutti i danni ambientali causati dall’uomo negli ultimi decenni. Ma forse anche perché la mia vita durante l’isolamento non è molto diversa – tranne per quanto riguarda i contatti fisici con alcune persone – da quella che vivevo prima che il coronavirus diventasse padrone della nostra vita. E della nostra morte.
Vista la mia scarsa conoscenza del fenomeno, ho consultato diversi portali sloveni e italiani, profondamente convinto che il sistema sanitario del paese in cui vivo sia assolutamente impreparato ad affrontare una sfida seria. E lo stesso vale anche per lo stato bosniaco: se lo stato non è in grado di risolvere il problema legato alla presenza di alcune migliaia di migranti sul territorio della Bosnia Erzegovina, cosa accadrebbe se alcune centinaia o migliaia di cittadini bosniaci si ammalassero di coronavirus?
A guidare la lotta al coronavirus, almeno formalmente, sono due dei politici più compromessi della scena politica locale: il ministro della Sicurezza Fahrudin Radončić (accusato di essere coinvolto in vari scandali) e la direttrice del Centro clinico di Sarajevo Sebija Izetbegović, che ha ottenuto quell’incarico attraverso un concorso pubblico truccato. Il fatto che la lotta all’epidemia sia stata affidata a loro due è stato sufficiente per suscitare preoccupazione, anche in chi non è ipocondriaco.
Poi il virus ha iniziato a diffondersi: lo scorso 16 marzo un uomo che sospettava di essere stato contagiato da coronavirus si è recato all’ospedale di Mostar. È stato ricoverato al reparto di pneumologia, ma ha taciuto ai medici un piccolo “dettaglio”, cioè il fatto che recentemente aveva viaggiato in Italia, finendo per contagiare sei medici dell’ospedale.
In queste situazioni le voci corrono veloci e le notizie, in sostanza tutte uguali, “si mangiano l’una con l’altra”. Pertanto la cosa più importante è avere un “filtro”, una maschera che impedisca a determinate informazioni di raggiungere la nostra mente. Altrimenti, essendo bombardati da “notizie” su fenomeni di cui praticamente non sappiamo nulla, rischieremmo di impazzire.
In questi giorni girava voce che il primo contagiato a Mostar avesse intrattenuto stretti rapporti con Dragan Čović, leader dell’Unione democratica croata della Bosnia Erzegovina (HDZ BiH), e che avesse viaggiato in Italia con altre dieci persone, ma che le autorità bosniaco-erzegovesi avessero taciuto tali informazioni.
Inoltre, qualche giorno fa si è diffusa la “notizia” che “da qualche parte nella periferia” di Sarajevo alcuni cinesi sarebbero stati trovati morti. Poi è arrivata una notizia inequivocabile: sabato 21 marzo a Bihać una donna anziana è morta per coronavirus; è stato suo figlio, recentemente tornato dalla Germania, a contagiarla. Una notizia da intendersi come un campanello d’allarme. Ma dal momento che – come abbiamo già detto – la Bosnia Erzegovina non ha alcuna capacità di far fronte a una grande epidemia, l’unica cosa che ci resta da fare è sottoporsi all’autoisolamento.
Ad un certo punto ci si rende conto di essere abbandonati a se stessi. Gli unici che hanno cercato, nel corso di alcune trasmissioni televisive, di spiegare ai cittadini la situazione a cui andiamo incontro e di offrire eventuali soluzioni, sono stati due medici, Bakir Nakaš e Nihad Fejzić.
L’intera classe politica tace. Nessuno degli alti funzionari dello stato si è rivolto ai cittadini, tranne il ministro dell’Interno del cantone di Sarajevo Ismir Jusko che, senza alcuna spiegazione e in modo del tutto inappropriato, ha dichiarato il coprifuoco. Anche il primo ministro della Federazione Bosnia Erzegovina Fadil Novalić ha cercato di rivolgersi all’opinione pubblica, ma sarebbe stato meglio se non l’avesse fatto. Durante una conferenza stampa Novalić ha tentato per tre volte di sistemarsi la mascherina sul viso, senza riuscirci, e il video è diventato virale su portali e social network.
Quindi, sabato 21 marzo in Bosnia Erzegovina è stato introdotto il coprifuoco dalle 18:00 alle 06:00. Chi conosce bene la storia ricorderà che a Sarajevo il coprifuoco fu introdotto per l’ultima volta il 21 dicembre 1996.
A Sarajevo, dove la vita sociale consiste nel prendere un caffè con gli amici a mezzogiorno e socializzare con i vicini di casa, il coprifuoco appare come un duro colpo, ma in questo momento è l’unico modo per proteggere i cittadini e per evitare di mettere a rischio le loro vite.
Mercoledì 25 marzo il numero di casi confermati di contagio da coronavirus in Bosnia Erzegovina è salito a 168 – considerando però che sono stati fatti pochi tamponi – , mentre i guariti sono due. Secondo alcune stime, come quelle avanzate dal dottor Nermin Salkić, professore associato presso l’Università di Tuzla, nei prossimi dieci giorni la situazione in Bosnia Erzegovina potrebbe diventare drammatica e l’epidemia potrebbe raggiungere dimensioni simili a quelle raggiunte in Italia.
Tenendo conto delle condizioni attuali del sistema sanitario bosniaco, ovvero di ciò di cui disponiamo, o meglio non disponiamo, non ci resta che isolarsi, diventare un’isola e ridurre al minimo i contatti sociali. Ma come scrisse molto tempo fa Ernest Hemingway: nessun uomo è un’isola.
E nemmeno la Bosnia Erzegovina è un’isola. Anche se qui il concetto di isolamento assume un significato ambivalente: nel quadro dei rapporti politici nella regione, la Bosnia Erzegovina è già un paese isolato.
Ora riuscirà a sopravvivere alla pandemia da coronavirus diventando un’isola? Deve riuscirci.