L'8 aprile 2021 si è spento a Sarajevo Jovan Divjak. Fu protagonista della difesa di Sarajevo durante l’assedio e fondatore e principale animatore dell’associazione Obrazovanje gradi BiH (L’istruzione costruisce la Bosnia Erzegovina) che offre borse di studio a studenti dell’intera Bosnia Erzegovina. Fu un grande costruttore di pace. In moltissimi lo stanno ricordando con grande affetto nei Balcani, in Italia e in tutta Europa. Assieme all’Ambasciata d’Italia in Bosnia Erzegovina OBCT invita tutti coloro che hanno conosciuto Jovan Divjak a condividere in questa pagina un pensiero ed eventuali foto. L’intenzione è lasciare in rete un “Libro degli addii”, per riprendere il titolo di un’antologia del poeta bosniaco-erzegovese Izet Sarajlić (1930-2002), che sia testimonianza delle relazioni europee e con l’Italia che Jovan Divjak è riuscito a tessere. Un ulteriore stimolo a percorre il cammino da lui avviato.
L'incontro con questo grande uomo è stato il più emozionante, all'interno di un bellissimo viaggio organizzato dal Circolo ricreativo dell'Università di Trento in collaborazione con l'Associazione Viaggiare i Balcani, a settembre 2019.
Prima di partire ci erano stati consigliati alcuni libri per avvicinarci alle realtà che avremmo visitato, e tra questi avevo scelto Sarajevo mon amour. Mi ero subito innamorata di quest'uomo capace di scelte coraggiose, sempre dalla parte dei più deboli, convinto sostenitore del valore della cultura e del dialogo.
Incontrarlo dal vivo, nella sede della sua associazione, è stato bellissimo ma ha lasciato una domanda pesante: nessuno a Sarajevo credeva si sarebbe arrivati a quelle atrocità, fino a poco prima dello scoppio della guerra. A tutt'oggi la situazione non è migliorata, anzi le tensioni sono sempre più forti. Possibile che la convivenza e collaborazione tra popoli sia sempre ostacolata? Sono sicura che l'esercito di ragazzi che hanno studiato grazie a Jovan sapranno sempre difendere i suoi valori, e questa è la sua eredità più grande.
Legenda čika Jovo...
"Pa kada se vidimo momak?", rekao je umiljatim glasom čim je podigao slušalicu posljednji put kada smo se čuli... nažalost nismo se vidjeli nakon tog razgovora...
Bio je definicija istinskog ljudskog bića, čovjek čistog srca i bistre duše, bez trunke zla, bez traga pohlepe...
Humanitarac, mirotvorac, spasilac, vojnik, general...
Vidite na položaju na kojem je bio devedesetih godina, mogao je imati šta god da poželi pod uslovom da sluša naredbe nadređenih, ali je ipak odlučio iz tog (tako da ga nazovem) "blagostanja" preći na stranu pravde. Dezertirao je i otišao među raju prihvativši da sa njima dijeli sudbinu, glad, patnju, bol, tugu, jad... jer je znao da je to bio jedini pravi put.
Bio je general, a za sebe je uvijek govorio da je on samo jedan od vojnika. Nije dozvolio sebi da ga savlada pohlepa, te da uživa dok saborci ginu, ili čak da zarađuje na muci naroda, kao što je nažalost činilo većina činovnika.
Čak naprotiv, do posljednjeg dana života bio je humanitarac, te je sve što je imao dijelio sa drugima, brinuo se za druge, pomagao drugima, podržavao druge...
Od rata pa do svojih posljednjih dana na ovom svijetu, život je posvetio pomaganju, izgradnji, odgajanju i obrazovanju mladih. Svakom djetetu je pružao istinsku toplinu, ljubav i pažnju koja im je bila potrebna. Svako dijete se osjećalo kao da ga čika Jovo voli jednako koliko i svoje.
Uvijek je bio skroman, prizeman i jednostavan čovjek. Bio je prava sarajevska raja. Bez straha i bez telohranitelja je hodio svojim gradom, uvijek sa osmijehom, poštovanjem i strpljenjem razgovarao sa sugrađanima, ispijao kafe sa rajom, dijelio zgode i nezgode sa starim saborcima i jednostavno je živio normalno...
Uvijek sam uživao razgovarati sa njim i bila mi je čast poznavati ga. Oni petominutni razgovori na ulici u prolazu sa njim su vrijedniji nego godine provodene sa nekim ljudima.
Veoma mi je žao što naš posljednji dogovoreni sastanak nismo održali, ali nadam se da ću opet dobiti priliku da provedem neko kvalitetno vrijeme sa čika Jovom na nekom boljem svijetu.
Osmog aprila, 2021. godine prije sahrane, razmišljajući o Jovi i planirajući kako započeti drugi oproštajni tekst, shvatio sam da je čovjeka koji je čak i u ratu govorio kako bi volio da mladi umjesto pušaka u rukama drže knjige, najbolje ispratiti citatima. Sa tim mislima su se kontinuirano isprepletali stihovi pjesme Kemala Montena "Pismo prijatelju", koji glase:
"Ako pitaš gdje sam sada
ne idem iz ovog grada
sve je moje ovdje ostalo“.
Kada dođe taj momenat da morate posljednji put pozdraviti osobu, shvatite koliko je cijenite, volite i poštujete...
Na sahrani, dok sam se emotivan opraštao od prijatelja, antifašiste, filantropa, humaniste, spasitelja, mirotvorca, vizionara, filozofa, odgajatelja, pisca, vojnika, generala, a prije svega toga velikog čovjeka, čika Jove, slušajući počasnu salvu, a zatim stihove antifašističke pjesme "Bella Ciao", kroz glavu su mi prolazili stihovi Mehmedalije Maka Dizdara:
"Tako tijelo stade
Na putu kroz tminu
Pade al glas jedan
Zvoni kroz tišinu
Al glas jedan zvoni
Glas što vječno leti
K nebu u visinu
Eže vječno leti".
Kasnije dok sam sjedio i sastavljao drugi oproštajni tekst, prisjećao sam se citata Leonarda da Vinčija, koji glasi: "Kao što dobro iskorišten dan dariva ugodan san, tako i dobro proživljen život dariva smirenu smrt.".
Tada sam rekao: "Eh čika Jovo, ti sada odmaraj u voljenoj bosanskoj zemlji koju si branio, čiji si heroj postao, te zauvijek ostao, a zatim putuj veliki čovječe, putuj svojom stazom od gnijezda do zvijezda, putuj ponosno, putuj herojski, te budi časno, svečano i veličanstveno dočekan na ljepšim i većim prostranstvima... "
U ime svih nas, po ne znam koji put, želim da ti kažem: NEKA TI JE VJEČNA SLAVA I HVALA ZA SVE, DRUŽE JOVO!
"Zemlja je smrtnim sjemenom posijana.
Ali smrt nije kraj
Jer smrti zapravo i nema.
I nema kraja.
Smrću je samo obasjana
Staza uspona od gnijezda do zvijezda."
-Mehmedalija Mak Dizdar
HEROJ BOSNE, HEROJ SARAJEVA, JOVAN DIVJAK (1937. - 2021.)
-Vječni prijatelj, Nedim Redžović
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Zio Jovo, un mito…
“Allora giovanotto, quando ci vediamo?”, mi ha chiesto con voce tenera appena ha alzato la cornetta l’ultima volta che ci siamo sentiti… purtroppo, da quella conversazione non ci siamo più visti...
Era un vero essere umano, un uomo dal cuore puro e dall’anima limpida, senza un briciolo di malizia, del tutto estraneo all’avidità.
Impegnato in attività umanitarie, pacifista, salvatore, soldato, generale…
Considerando la carica che occupava negli anni Novanta, poteva avere tutto ciò che desiderava, purché obbedisse agli ordini dei suoi superiori, ma decise di rinunciare a quel “benessere” (per così dire), schierandosi dalla parte giusta. Disertò [dall’esercito jugoslavo] per unirsi alla raja [gente comune], accettando di condividere il suo stesso destino, la fame, la sofferenza, il dolore, la tristezza, la miseria… perché sapeva che quella era l’unica strada giusta da intraprendere.
Era un generale, ma diceva sempre di essere solo un semplice soldato, uno fra tanti. Non si lasciò trascinare dall’avidità, non volle abbandonarsi ai piaceri mentre i suoi commilitoni morivano, né tanto meno volle lucrare sulla sofferenza della gente comune, come purtroppo faceva la maggiore parte degli ufficiali.
Al contrario, fino all’ultimo giorno della sua vita è rimasto dedito all’impegno umanitario, tutto ciò che aveva lo condivideva con gli altri, si prendeva cura degli altri, aiutava gli altri, sosteneva gli altri…
Dall’inizio della guerra fino alla fine dei suoi giorni, ha dedicato la vita ad aiutare gli altri, alla costruzione, all’educazione e all’istruzione dei giovani. A tutti i bambini dimostrava sincero affetto, amore e attenzione di cui avevano bisogno. Ogni bambino sentiva che lo zio Jovo lo amava come se fosse suo figlio.
Era un uomo modesto, con i piedi per terra, semplice. Un vero sarajevese. Passeggiava per la sua città senza paura e senza farsi accompagnare da guardie del corpo; sempre sorridente, rispettoso e paziente parlava con i suoi concittadini, si fermava a bere un caffè con la raja, condivideva con i suoi vecchi commilitoni tutto ciò che gli accadeva, bello o brutto che fosse; semplicemente viveva una vita normale.
Per me è sempre stato un piacere parlare con lui e sono onorato di averlo conosciuto. Quelle conversazioni di cinque minuti in cui ci intrattenevamo così en passant, incontrandoci per strada, valgono più degli anni trascorsi con alcune persone.
Mi dispiace molto che l’ultimo incontro che abbiamo fissato non abbia potuto avere luogo, ma spero di avere un’altra occasione per trascorrere del tempo in compagnia dello zio Jovo, in un mondo migliore.
L’8 aprile 2021, pensando a Jovo e riflettendo su come iniziare un’altra lettera d’addio, mi sono reso conto che il modo migliore di dire addio ad un uomo che persino durante la guerra diceva che gli sarebbe piaciuto che i giovani, invece di un fucile, prendessero in mano un libro, era citare parole altrui. Questi miei pensieri si intrecciavano continuamente con i versi di una canzone di Kemal Monteno intitolata “Lettera ad un amico” che recitano così:
Se chiedi dove sono ora
Non me ne vado da questa città
Tutto ciò che è mio è rimasto qui.
Quando arriva il momento di dare l’ultimo saluto ad una persona, vi rendete conto quanto la stimate, amate e rispettate.
Al funerale, mentre, sommerso da emozioni, mi accomiatavo dall’amico, antifascista, filantropo, umanista, salvatore, pacifista, visionario, filosofo, educatore, scrittore, soldato, generale, ma soprattutto da un grande uomo, lo zio Jovo, ascoltando gli spari di commiato e poi i versi della canzone antifascista “Bella Ciao”, mi sono venuti in mente i versi di una poesia di Mehmedalija Mak Dizdar:
Così il corpo si è fermato
Sulla strada attraverso il buio
È caduto ma una voce
risuona nel silenzio
Ma una voce risuona
Voce che vola perennemente
Verso il cielo in alto
Che vola perennemente
Più tardi, mentre stavo seduto a scrivere la seconda lettera d’addio, mi sono ricordato delle parole di Leonardo da Vinci: “Come una giornata ben spesa dà lieto dormire, così una vita ben vissuta dà lieto morire”.
Allora ho detto: “Eh zio Jovo, tu ora riposa nella tua amata terra bosniaca che hai difeso, diventando il suo eroe, e lo rimarrai per sempre, poi viaggia grande uomo, percorri la tua strada dal nido verso le stelle, viaggia orgogliosamente, viaggia eroicamente, e sii accolto in modo dignitoso, solenne e grandioso in una terra più bella e grande”.
A nome di tutti noi, voglio dirti, per l’ennesima volta: A TE SIA GLORIA ETERNA E GRAZIE DI TUTTO, AMICO JOVO!
La terra è cosparsa di semi della morte
Ma la morte non è la fine
Perché la morte in realtà non esiste
Come anche non esiste la fine
La morte non fa che illuminare
La strada che dal nido sale verso le stelle
(Mehmedalija Mak Dizdar)
UN EROE DELLA BOSNIA, UN EROE DI SARAJEVO, JOVAN DIVJAK (1937-2021)
Tuo amico per sempre, Nedim Redžović
foto di Nedim Redžović
Dal 2001 l’istituto comprensivo Fabrizio De André di Rho (Milano) ha progettato uno scambio culturale con docenti e alunni di due scuole , "Sedma osnovna skola" di Ilidža e "Deveta osnovna skola" di Rakovica: un anno noi a Sarajevo, un anno loro a Rho… uno scambio durato 10 anni, ma le amicizie nate allora non sono mai finite. Nel 2009 toccava a noi andare a Sarajevo: Birsana, la docente responsabile di Ilidža mi dice: vi organizzo un incontro con un generale, con un eroe, con Jovan Divjak.
Io avevo appena comprato e letto il libro "Sarajevo mon amour" che mi aveva letteralmente fulminato.
Non vi dico l’emozione … un breve incontro nella sede della sua associazione, lui superoccupato ha trovato il tempo per questi ragazzi … per brevi intense parole sulla libertà. Ha scherzato con loro, con noi adulti, in una lingua mista di italiano francese bosniaco: una lingua "mista" come siamo "misti" tutti noi.
A me è rimasto, tra l’altro, la dedica sul suo libro: "a Liliana, credo che quando leggerete questo libro amerete Sarajevo e la Bosnia Erzegovina come la amo io".
Già l'amavo, la Bosnia, e con me tutti quelli che hanno partecipato a questo progetto e l’incontro con Jovan ha rafforzato questo amore e questa vicinanza. Uomini come Jovan sono faro per chi cerca di rimanere umano e crede nella fratellanza e nella solidarietà.
Abbiamo incontrato Jovan Divjak diverse volte, la prima nel 2015. L’ associazione OGBiH da lui fondata e diretta aveva da poco compiuto 20 anni. Ci accolse con semplicità, come se fosse la cosa piû naturale del mondo parlare con degli sconosciuti. In quel primo incontro, durante il quale ovviamente si parlò della guerra e dell’assedio di Sarajevo, ad un certo punto disse : « Mais ne parlons pas de la guerre, parlons de l’amour ».
È forse l’aspetto più paradossale di Jovan Divjak : il suo profondo amore per Sarajevo, per la Bosnia, per la sua gente, la quale ricorderà sempre quella straordinaria umanità, mostrata e vissuta da un ex generale, un militare di professione, uno che ha fatto la guerra ma che detesta la guerra dal profondo e dona tutto se stesso a coloro che le cicatrici della guerra le porteranno per sempre : ai figli dei caduti, affinchè possano studiare e contribuire ad un futuro migliore, per se stessi e per la Bosnia-Erzegovina.
In occorrenza del 25mo dell’associazione OGBiH avemmo l’onore di essere invitati ai festeggiamenti. Jovan Divjak venne di persona ad accoglierci all’aeroporto di Sarajevo, pur non essendo noi ospiti di particolare riguardo: Ma ciò non contava per lui. Abbiamo passato in quell’occasione ore indimenticabili a contatto con la sua umanità ed in presenza di tantissimi amici dell’associazione venuti da ogni parte d’Europa.
Ora che non c’è più comprendiamo che ai grandi basta poco per lasciare un’impressione profonda. Essa ci lega a tutti coloro che grazie a lui abbiamo conosciuto, con i quali intendiamo impegnarci anche in futuro per la Bosnia-Erzegovina. Sappiamo che ne sarebbe stato felice.
I met zio Jovo last year, a week before the world “closed” for Coronavirus. I was in Sarajevo to collect materials for my History Thesis about the Jugoslav wars. He was very gentle and clear in answering all my “technical” questions, but what I will remember forever was his straight, transparent and honest minded attitude related to the most important task of life: education, freedom, justice. All his life showed the world that freedom is not a flag, but a moral attitude.Thanks for showing all of us what humanity is.
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Ho conosciuto zio Jovo l'anno scorso, una settimana prima che il mondo “chiudesse” per Coronavirus. Ero a Sarajevo per raccogliere materiale per la mia tesi di storia sulle guerre jugoslave.
È stato molto gentile e chiaro nel rispondere a tutte le mie domande "tecniche", ma quello che ricorderò per sempre è il suo atteggiamento schietto, trasparente e onesto relativo ai compiti più importanti della vita: istruzione, libertà, giustizia.
Tutta la sua vita ha mostrato al mondo che la libertà non è una bandiera, ma un atteggiamento morale.
Grazie di aver mostrato a tutti noi che cos'è l'umanità.
Quando incontri una persona davvero speciale, lo senti subito, lo senti addosso, ti travolge dentro. Non capita spesso e quando ci capita siamo fortunati.Quello che racconto non fa parte della "Storia ufficiale" del Generale Jovan Divjak ma parla di quanti momenti incredibili ho vissuto con lui. Il Generale mi ha travolto anche fisicamente, trascinandomi di corsa per attraversare la Titova in mezzo alle auto che correvano nel centro di Sarajevo, come ragazzini incauti ridendo da matti. Sapete perché? Gli avevo spiegato che soffro di pressione alta. Sembra incredibile ma Divjak, come lo conoscevi, diventava uno di famiglia, e dato che anche lui aveva lo stesso problema, improvvisamente si alzò dal tavolo della birreria e mi trascinò a misurare la pressione di ambedue, nella farmacia dall'altro lato della strada. A ricordarlo sembra un sogno. Era invulnerabile come Superman, in mezzo alle auto in corsa. Entrando in farmacia, si fermarono anche gli orologi, come accadeva continuamente a Sarajevo appena il Generale compariva da qualche parte.Iniziò subito a scherzare nel suo modo coinvolgente, con le farmaciste, ma potevano essere bariste o cameriere, e fortunatamente la pressione andava bene a ambedue. A proposito, la cameriera della birreria cadde nello scherzo del Generale in pieno. Arrivò con quanto avevamo ordinato sul vassoio, con aria emozionata e deferente, lei che probabilmente era una bambina durante la guerra ma sapeva che aveva di fronte una leggenda, e il Generale la guardò con aria sbalordita, accigliato, chiedendole chi avesse ordinato quella roba. La poveretta sbiancò pensando di aver sbagliato tutto l'ordine ma la risata seguente del Generale svelò la celia di Divjak e tutti risero. Passare del tempo con il Generale Divjak, Zio Jovo, mi ha portato a riscoprire due verbi che forse non avevo mai usato prima: celiare e ruzzare. Azzeccati in pieno per descrivere l'animo formidabile con il quale Divjak coinvolgeva chiunque sin dal primo incontro. Era sempre una festa.Arrivò a Firenze, dove lo avevo invitato, per ricordare degnamente il genocidio di Srebrenica, il 24 giugno del 2015, vent'anni dopo. Arrivò in macchina direttamente da Sarajevo, con un giovane amico, passando tutti i confini, interni non scritti e esterni della ex Jugoslavia. Era il 24 giugno, San Giovanni, quando a Firenze si festeggia il patrono con fuochi d'artificio spettacolari. Il generale si tuffò nella grande folla "pe' fochi" come un bambino scatenato e noi dietro a cercare di non perderlo. Dopo i "fochi" volle andare a giro in centro, tra piazza Signoria, Duomo e Ponte Vecchio. Quasi di corsa, entrava in tutti i negozi, si infilava nei gruppi di turisti per farsi fotografare nei loro selfie, tra gli sguardi sbalorditi di chi si chiedeva chi fosse quel signore matto. Come un bambino con il suo sorriso furbo...In quei giorni camminavo a un metro da terra per l'effetto che mi faceva la vicinanza con il Generale. Ero più distratto del solito e accadde una cosa mai capitata prima, né dopo. Per fortuna.Al mattino seguente c'era il primo incontro pubblico su Srebrenica e io andai a prendere Divjak all'albergo. Arrivando, lo trovai con il suo accompagnatore del quale purtroppo non ricordo il nome e mi avvidi che stavano ridendo. Mi accorsi allora che stavo indossando un paio di pantaloni che erano completamente sbranati sul di dietro! Praticamente visto da dietro ero in mutande. Le risate si sentivano da chilometri...Come era potuto accadere? Non era uno strappo, si era sbranato tutto il dietro!Ora come facevo? Eravamo già in ritardo. Sarei dovuto tornare a casa, distante. Allora ecco che il giovane amico che accompagnava Divjak mi condusse nella sua camera dove mi offrì un paio di suoi pantaloni. Il tutto accompagnato da risate di tutti eccetto il sottoscritto, potete immaginare...La misura era esattamente la mia. Avevamo la stessa taglia, io e il nostro amico. Era fatta, avevamo risolto... Incredibile. Resta ancora un mistero come io non possa essermi accorto di aver indossato pantaloni sbranati e come questi si fossero sbranati. Divjak aveva capito che gli eventi per Srebrenica, venti anni dopo, a Firenze, li avessi organizzati praticamente quasi da solo. con pochissimi fedeli amici. Del resto a Firenze è raro anche che si sappia dove si trova la Bosnia Erzegovina. Questo mio appassionato lavoro aveva la sua simpatia e gratitudine e la nostra amicizia era consolidata. Ero entrato a far parte del mondo dei suoi amici, un vero mondo per numero e qualità e lui ricordava ognuno in modo speciale. Lo si capiva bene. Erano tantissimi, oltre all'intera città di Sarajevo, ma erano ognuno un amico personale. Lui, sono certo che ricordasse tutto di tutti.Poi andai a trovarlo a Sarajevo. Grazie al fedele amico Vedran, avevo sempre sue notizie e lui chiedeva di me. Vedran e Divjak sono i "PDV" di Sarajevo... PDV è la sigla che da noi e IVA. In Bosnia Erzegovina l'IVA - PDV è al 15%. Vedran e Divjak facevano parte del 15% di cittadini originari di Sarajevo, rimasti dopo la guerra. Conoscere loro vuol dire conoscere la Sarajevo vera, quella degli anni 70 e 80, quella delle Olimpiadi invernali del 1984, quella che fu scelta perché "Altre città hanno ottimi comitati olimpici ma a Sarajevo sarà tutta la città a organizzare i giochi". Il sogno infranto ma magico che leggi negli occhi dei PDV e del Generale, che cambiò le sorti della guerra fino a impedire all'aggressore di conquistare la capitale. "Loro" ancora si chiedono come sia stato impossibile.Avevamo fissato in un bar del centro. Portai con me una giovane madre con i suoi tre figlioletti, da Kalesija (chi conosce la Bosnia sa che si trova in un angolo disgraziato di una nazione disgraziata). Mi occupavo da quasi venti anni di quella famiglia e nel mio piccolo facevo qualcosa anche io di simile alla attività della associazione fondata da Divjak. Ci vedemmo in centro e lui subito si interessò dei bimbi. In seguito ci vedemmo in sede e sul terrazzo vista Sarajevo che era troppo bello. Sapete che la sede della associazione del Generale si trova a un passo dal confine invisibile con la Serbo-Bosnia? Su una delle colline dalle quali si bombardava Sarajevo. Ci raccontammo delle nostre malattie e ci consolammo con tazze di tea. Grazie Generale. Grazie a lei siamo migliori. Di lei si racconterà per generazioni. La Storia le deve molto.
Andare in giro con lui per il centro di Sarajevo era un’impresa quasi impossibile: Jovan Divjak non riusciva a fare venti passi che subito si avvicinava qualcuno, lo salutava, lo abbracciava, e spesso, praticamente sempre, lo ringraziava. Ho visto più di un sarajevese portarsi la mano al cuore al solo sentire il suo nome. Una volta addirittura mi capitò in treno da Mostar a Sarajevo, quando una signora seduta di fronte a me vide che tenevo in mano il suo libro «Sarajevo mon amour».Čika Jovo era davvero l’uomo più amato di Sarajevo, e credo che lo resterà per molti, moltissimi anni a venire. Un amore autentico e granitico, temprato da quella prova terribile che la città fu chiamata dalla Storia ad affrontare ormai quasi trent’anni fa.
Divjak e la sua città d’adozione hanno attraversato insieme l'inferno, e non credo di esagerare dicendo che ne sono usciti in larga parte per merito suo e del suo eroismo.
Perché Jovan Divjak è stato davvero un eroe dei tempi moderni. Una di quelle rare persone che sono disposte non solo a morire, ma anche e soprattutto a vivere per la loro patria.
Non a caso dopo la guerra (anzi, a guerra ancora in corso) aveva fondato la sua associazione Obrazovanje Gradi BiH. Nel tormentato dopoguerra della Bosnia (quello che a volte, ahimé, sembra non aver mai fine) i ragazzi a cui Divjak ha salvato la vita, fornendo loro concreta possibilità di una esistenza migliore, sono forse di più dei cittadini a cui salvò la vita durante l’assedio. Niente secondo me fa guardare con speranza al futuro della Bosnia più del sentire quegli ex-bambini, ora giovani adulti, che dicono: «da grande voglio essere come lui».
Ho scoperto solo dopo che non amava essere chiamato Generale (i Generali sono tutti a L’Aja, diceva) e sulle prime ne rimasi sorpresa. Io l’avevo sempre chiamato cosi e non mi sembrava che gli dispiacesse. Poi ho capito: ogni qual volta una donna, di qualsiasi età o nazionalità, dimostrava ammirazione nei suoi confronti, in lui tornava a far capolino quella sorta di indulgente compiacimento da rubacuori balcanico. La galanteria non mancava di certo, in Jovan. Cosi come non mancava quell’incredibile, sferzante sense of humor, che superava il già notoriamente spiazzante umorismo balcanico. Ho sempre pensato che questa fosse una parte costitutiva della sua tempra, e che gli ha permesso di superare i tanti momenti dolorosi in cui è stato chiamato ogni minuto a rendere conto della giustezza delle proprie scelte.
Personalmente, non credo che potrò mai ringraziare Jovan Divjak abbastanza. Alcune delle decisioni importanti della mia vita le devo a lui e a tutto quello che, direttamente o indirettamente, mi ha insegnato. L’unica cosa che posso dire, oltre al fatto che che mi mancherà immensamente, è che proprio come i ragazzi della sua OGBH, io da grande vorrei essere come lui. Zbogom, Generale!
Prima al cinema del film Ti ricordi di Sarajevo , cinema Meeting Point / Maggio, 2002.
Dragan Vikic, Jovan Divjak e gli autori del film i fratelli Sead e Nihad Kresevljakovic e Nedim Alikadic
Ho vissuto per due anni a Vraca, sopra Grbavica, nella stessa strada dove c’era la sede dell’associazione di Divjak. Andava in ufficio a piedi, l’affetto con cui i sarajevesi lo salutavano, quando passava, bastava a spiegare tutto. Il fatto di essere serbo, e di aver difeso la città dai nazionalisti serbi, era la cosa che più impressionava i giornalisti stranieri. Certo, c’era anche questo. Ma Divjak non era stato il solo a fare questa scelta. E con il tempo, la cosa che più colpiva era la sua libertà di pensiero, la disponibilità a parlare di tutto senza reticenze, fedele alla sua visione del mondo. Una visione del mondo molto chiara, in cui il valore più importante era la difesa dei più deboli. Un giorno gli avevo chiesto come avessero fatto a difendere per 4 anni la città da un esercito così potente. Noi avevamo la superiorità morale, mi aveva spiegato. Spero che la sua associazione continui, è l'eredità che lascia in dono a Sarajevo, e non solo.
Zenica prije7-8 godina na utakmici nogometne reprezentacija BIH.
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Zenica, 7-8 anni fa, alla partita di calcio della rappresentativa della BiH
Vi è mai capitato di intervistare un eroe? Di scambiare idee e vita con un un uomo che per una parte di mondo è considerato come il salvatore, l’uomo che è riuscito a fermare con pochi mezzi un esercito che aveva la fortuna di poter utilizzare i mezzi e le armi di quello che era uno dei più grandi eserciti europei, l’Armata Nazionale Jugoslava?
Io ho avuto questa fortuna e mi piace raccontarvi come sono riuscito ad incontrare Jovan Divijak, il serbo difensore di Sarajevo, ma non solo.
L’uomo per cui Sarajevo era tutto al di là della nazionalità di chi l’abitasse.
L’incontro con Divijak avvenne il 13 novembre 2018 nella sede dell’Associazione da lui diretta, OGBH (Obrazovanje Gradi Bosnu i Hercegovinu/Education Builds Bosnia and Herzogovina) .
Ma prima di questo incontro vis a vis, qualche anno prima ci fu una incredibile e inaspettata telefonata.
Ero stato a Sarajevo, solo per un giorno, e avevo deciso di tentare la sorte cercando di incontrare Divijak. Così mi feci portare da un taxi a Grbavica nella sede dell’Associazione, ma per motivi lavorativi il Generale Divijak non era in ufficio.
Ci rimasi male, naturalmente, ero dispiaciuto di non averlo potuto incontrare, anche se ero contento di aver potuto visitare i locali dell’Associazione e parlare con chi vi lavorava.
Lasciai i miei contatti, ma onestamente non confidavo in un repentino contatto.
Tornato in Italia smisi di pensare a Divijak preso com’ero nel tentativo di salvare il mio dottorato in etnologia dal fallimento, ma una mattina mentre passeggiavo nei viali dell’Università, il mio telefono squillò. Era un numero estero, risposi, e rimasi senza parole, dall’altro lato del filo c’era Jovan Divijak che mi parlava in inglese con l’aiuto di una sua collaboratrice e mi ringraziava della visita e si diceva felice d’incontrarmi in un’altra occasione.
Pochi minuti, ma la voce di quest’uomo fiero e vero, mi rimasero nel cuore.
L’occasione per incontrarci non si palesò subito, per vari motivi fu impossibile per me raggiungere Sarajevo e nel frattempo Divijak venne arrestato a Vienna su mandato dei tribunali serbi, con l’accusa di crimini di Guerra. Come sempre accade nel dopo guerra chi è un eroe per una delle parti in causa è quasi sempre considerato un criminale dal “nemico”.
Poi qualche mese dopo iniziai a programmare il mio ritorno a Sarajevo, l’occasione il Festival Pravo Liujdski, così scrissi una nuova mail all’Associazione. Mi risposero in breve termine, Jovan Divijak aveva piacere d’incontrarmi, finalmente avevo un appuntamento.
Con trepidazione salii di nuovo la collina di Grabavica e finalmente riuscii a incontrarlo.
Davanti a me avevo un uomo sorprendente, com’è sorprendente la sua storia, ma anche un uomo che almeno inizialmente sembrava studiarmi, voler saggiare la mia reale conoscenza della storia e della realtà politico-sociale recente di Sarajevo e della Bosnia.
Divijak è seduto alla sua scrivania, mi invita a sedermi e mi porge una copia in italiano del libro che racconta la sua storia Sarajevo Mon Amour edito da Infinito edizioni, e attende le mie prime domande.
Alla fine la tensione si scioglie, e l'intervista tocca molti temi caldi, Srebrenica, l'importanza dell'educazione nel paese, e della cultura in generale, sulla sua Sarajevo.
Al termine dell'intervista finiamo per parlare di calcio e di film e scattiamo la classica foto ricordo, con la promessa di incontrarsi di nuovo.
Ma la vita, si sa, sceglie per noi e così quell'incontro non è più avvenuto e mi rimane il rammarico di non averlo potuto incontrare di nuovo.
Ci vorrà tempo perché il popolo (o meglio i popoli) della Bosnia ed Erzegovina comprenda davvero quale è stato il ruolo e l'apporto che Jovan Divijak ha donato al paese, ora è necessario che la sua eredità non vada perduta.
Ho conosciuto Jovan a Nembro (Bg) in Italia in un evento organizzato dagli amici bergamaschi che avevano lavorato come volontari durante e dopo il conflitto. Era accompagnato da due ragazze della sua Associazione e dall’amico giornalista Gigi Riva. Avevo iniziato già da un anno a stendere progetti per Comunità a Tuzla. Mi invitò quindi a Sarajevo dove mi fermai per un mese. Ohh come amava parlare francese! e raccontare barzellette. Amava il Teatro e la cultura e proprio nel Teatro di Sarajevo abbiamo condiviso molto del nostro sentire. Amava i bambini, amava le donne, la loro capacità di ricostruire un futuro. L’importanza dell’istruzione è stata spesso il soggetto delle nostre chiacchierate. Mi sono subito affezionata a questo uomo straordinario che assomigliava tanto a mio padre che avevo perso da poco. Non sono riuscita a tornare a Sarajevo per un ultimo saluto, la pandemia non lo ha permesso ma lui rimane un incontro speciale e meraviglioso della mia vita. Indimenticabile Jovo HVALA.
Non posso dire di averlo conosciuto, ma di avere avuto l’onore di incontrarlo e passare alcune ore con lui sì, a Faenza dove con una associazione lo ospitammo a presentare Sarajevo Mon Amour, libro meraviglioso con una copertina indimenticabile.
Uomo buono, profondo e scherzoso nello stesso tempo, soprattutto uomo giusto, che ha servito con disciplina e onore la causa dell’umanità.
Ho una foto, salvata nel telefono. Ci sono io, stretto nella mia t-shirt dei Pink Floyd, a fianco di Jovan Divjak. Lui ha la stessa espressione vista migliaia di volte, un misto di serietà e tranquillità e fiducia che si riesce incredibilmente a ritrovare anche in tante immagini degli anni dell'assedio di Sarajevo, anche in quelle scattate nei momenti più difficili. Io: beh, io ho il sorriso vagamente incredulo di un ragazzino che si ritrova a dieci centimetri da una rockstar planetaria (e già il fatto che sorrido in una fotografia, sì, è abbastanza eccezionale).
Mi aveva portato al suo cospetto Asim pochi minuti prima: “Generale, le presento un nostro amico italiano che vorrebbe tanto salutarla” e lui era stato cordiale, mi aveva stretto la mano con quella benna che aveva stretto mitra e accarezzato bambini, mi aveva parlato in italiano, mi aveva detto che sarebbe venuto a Milano qualche mese dopo.
Di quei pochi minuti nel centro della Baščaršija di Sarajevo ricordo la sensazione di solidità della sua persona e soprattutto il fatto che i passanti si fermavano a decine a salutare, chi gli diceva grazie e chi lo toccava sulla spalla come se fosse una reliquia vivente e lui rispondeva a tutti, a tutti faceva un cenno o rivolgeva un saluto o un ringraziamento.
Ancora oggi, dopo quasi due anni, mi capita di ripensare a quel momento realizzando che non sono mai stato così vicino a una manifestazione di affetto e riconoscenza come quella alla quale ho assistito in quel giorno di agosto in Bosnia.
Un amico mi ha scritto: "Stavo leggendo un po' di social e news sulla morte di Divjak. E' impressionante. Non credo che esista un altro uomo, oggi, così universalmente amato e stimato dalla sua comunità". Erano - sono - un amore e una stima meritati: perché per quella gente, tutta, senza distinzioni di sesso, nazionalità o religione, il generale Jovan Divjak aveva rischiato tutto quello che aveva, a partire dalla vita.
Non era stata una storia d'amore tutta rose e fiori, quella del generale con Sarajevo; ma alla fine il tempo gli aveva reso giustizia; ho passato giorni a chiedermi se io, dall’alto della mia mezza età e della mia informazione e del mio spirito critico così ben addestrato dalla frequentazione con la politica del mio paese quel giorno nel centro di Sarajevo non mi sono lasciato affascinare e incantare dalla vicinanza a un mito costruito con perizia da una delle molte macchine di propaganda che si sono talvolta affrontate e talvolta spalleggiate in quel lunghissimo, estenuante e non ancora concluso conflitto. E oggi che Jovan Divjak non c'è più continuo a sentirmi dalla parte della ragione, continuo a pensare di aver incontrato e stretto la mano a un uomo che, al netto degli errori che chiunque commette e delle decisioni inevitabilmente sporche alle quali ti costringe la guerra, ha scelto la parte giusta: o meglio, la parte della giustizia, che non è la stessa cosa anche se non ho abbastanza parole valide per spiegare la differenza: e sono contento di averlo fatto.
Tramite i racconti di mio marito e di Melita Richter che lo hanno conosciuto e condiviso idee e progetti dopo l’assedio avevo già molta stima del Generale, quando è venuto a Trieste a presentare “ Sarajevo, mon amour” sono accorsa ad ascoltarlo.
Commossa mi sono fatta strada per farmi autografare il libro.
È stato un momento di forte emozione parlare con una persona così “grande”, con un uomo “giusto”.
Kako pisati o dragoj osobi, prijatelju kojeg nema više a kojemu je več sve rečeno. Sve se zna o njegovom životu, djelu, hrabrosti, posvećenosti...kako pisati kad imaš knedlu u grlu od tuge da se više nikad nećete sresti u centru grada ili kod njega u Udruženju.
Jovana Divjaka nisam poznavala prije rata, iako smo živjeli u starom dijelu grada gotovo blizu jedan drugome. Nisam ga poznavala iako sam kčerka oficira, ali moj otac je bio načelnik Vojnogeografskog Instituta, tako da se ni njih dvojica nisu međusobno poznavali. Osim toga tata me je držao podalje od vojnog ambijenta jer vjerojatno nije želio da se zaljubim u nekog oficira.
Život je tako svakoga vodio na svoju stranu dok nije došao rat i opsada Sarajeva. Moj suprug Faruk, poginuo je već prvi mjesec dana rata i ja sam ostala sama sa djecom. Od muževljeve porodice nisam imala nikakvu podršku, a moj otac je več bio slab i bolestan, očajan što njegove savršeno izrađene topografske karte sada koriste neprijatelji da bi preciznije gađali Sarajevo. Pomagali su mi samo susjedi i prijatelji mog Faruka još iz djetinjstva.
Ne znam više da li je bilo ljeto ili zima, jer u ratu su svi dani isti u grču želje da se preživi bar još jedan dan, kad je pored naše kuće u ulici Veliki Alifakovac (preko puta Vječnice, ali na drugoj obali Miljacke), naišao general Jovan Divjak. Svi susjedi koji su ga prepoznali bili su sretni da ga vide među nama i sjatili se oko njega „Evo našeg komandanta“. Znali smo da general obilazi branioce na prvim linijama i građane, ali ovaj susret je bio pravo iznenađenje i ohrabrenje. Za trenutak, kao da nije bilo rata i kao da je oslobođenje na vidiku.
Ponudila sam ga da uđe da popijemo kafu, ali on je odbio i rekao da nema vremena, ali da će doći sutradan ujutro na doručak. Kao i u ostalim kućama u gradu, ni u mojoj nije bilo hrane, ali bilo je malo brašna, soli i praška za pecivo, a i malo ulja koje je u to vrijeme bilo pravi luksuz. Mogla sam samo da pripremim ćaj i lokume (ili peksimete kako ih neko zove). Jovan je stvarno došao kako je obečao, a moji lokumi nikad nisu bili ljepši. I svaki put kada bismo se ponovo sreli i ovih posljednjih godina Jovan je pričao o tom prvom doručku u našoj kući.
Kasnije smo se sretali često, navratio bi da vidi kako smo djeca i ja kako je naš komšiluk. Sretali smo se puno puta u i Kamernom teatru 55, na prvom Sarajevo Film Festivalu za koji je Italijanska ambasada u Sarajevu, donijela filmove, ili na koncertima. Rizikovali smo život da bismo do tamo došli, ali bilo je važnije u tom trenutku osjetiti se živima, nego preživjeti.
Povezali su nas i susreti sa italijanskim novinarima i izuzetna prijateljstva s njima, sklopljena pod opsadom, pod granatama i policijskim časom. Jovan je izuzetno cijenio italijanske novinare zbog njihovog tačnog i objektivnog obavještavanja italijanske javnosti. Tako su jednom u mojoj kući na večeri bili Jovan, Adriano i Ivo i nakon večere i obavezne pjesme sva trojica da bi pokazali kako su još u formi napravili stoj na rukama. Taj poznati stoj na rukama Jovan je izveo i pred studentima sa Sardinije i italijanskim generalom Sabatelli-jem komandantom Brigade Sassari, na platou ispred Jevrejskog groblja, u decembru 1999. Prevodeći Jovanove riječi ovoj grupi, dok je on objašnjavao gdje su bile prve linije neprijateljske artiljerije koja je neprestano gađala grad, ja sam po prvi put shvatila odakle nas je vrebala opasnost i zaklecala su mi koljena. Ponekad je bolje ne znati.
A onda, kada se stanje u BiH malo stabiliziralo i kada se vanjski svijet malo oslobodio predrasuda, mada i sada ponekad čujem „puca li se još kod vas?“, počeli su u Sarajevo dolaziti italijanski skauti , a onda učenici i studenti na školske ekskurzije. Ne znam broja tim mladim ljudima koji su obavezno željeli da se sretnu s Jovanom. Ili ja ili moj sin Faris smo na tim susretima prevodili. Ponekad, kada bi se umorio, na tim susretima Jovan bi rekao: „A sada će vam moja prijateljica dalje pričati...“ Posljednji put trebali smo zajedno ići u Milano u februaru 2019....
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Come è possibile scrivere di una persona cara, un amico che non c’è più e sul quale tutto è già stato detto. Si sa tutto della sua vita, del suo lavoro, del suo coraggio, della sua dedizione… come è possibile scrivere con un nodo in gola per la tristezza che non lo incontrerai più in centro città o alla sua associazione.
Non conoscevo Jovan Divjak prima della guerra, anche se vivevamo entrambi nella parte vecchia della città, vicini uno all’altra. Non lo conoscevo anche se sono figlia di un ufficiale, ma mio padre era a capo dell’Istituto militare di geografia per cui loro due non si incontravano. Oltre al fatto che mio padre mi teneva lontano dall’ambiente militare, perché probabilmente non voleva che mi innamorassi di un ufficiale.
La vita ci ha portati ciascuno per la sua strada, fino a quando non è arrivata la guerra e l’assedio di Sarajevo. Mio marito Faruk è morto nel primo mese di assedio e io son rimasta sola con i miei due figli. Dalla famiglia di mio marito non ho ricevuto alcun sostegno, e mio padre era già debole e malato, disperato perché le sue meravigliose mappe topografiche erano finite nelle mani dei nemici che le usavano per colpire con precisione Sarajevo. Da allora mi hanno aiutato solo dei vicini e gli amici d’infanzia del mio Faruk.
Non so più se fosse estate o già inverno, perché in guerra tutti i giorni diventano uguali, nello spasmo di voler sopravvivere almeno un giorno in più, quando accanto alla nostra casa nella via di fronte alla Vječnica, ma al di là del fiume Miljacka, è arrivato il generale Jovan Divjak. Tutti i vicini l’hanno riconosciuto, felici di averlo con noi, accerchiandolo e dicendo “Ecco il nostro comandante”. Sapevamo che il generale andava regolarmente a trovare i soldati appostati sulle prime linee del fronte come anche i cittadini, ma questa sua visita ci aveva sorpreso e dato coraggio. Per un attimo, come se la guerra fosse finita e la liberazione all’orizzonte.
L’ho invitato a entrare e bere un caffè, ma lui ha rifiutato dicendo che non aveva tempo, ma che sarebbe tornato il giorno dopo per colazione. Come in tutte le altre case della città, nemmeno a casa mia c’era cibo, ma avevo un poco di farina, sale e lievito, e un poco di olio che a quei tempi era un vero lusso. Ho potuto preparare solo un the e dei lokum (o pekismeti come li chiama qualcuno) [ndt: panetti di farina fritti, che possono essere dolci o salati]. Jovan è veramente arrivato, come aveva promesso, e i miei lokum non sono mai stati più buoni di quella volta. E ogni volta che da allora ci siamo incontrati, anche negli ultimi anni, Jovan ha sempre ricordato quella prima colazione a casa mia.
Dopo di allora ci siamo incontrati spesso, veniva a trovarci per sapere come stavano i miei figli e come stavano i vicini di casa. Ci incontravamo spesso al Kamerni Teatar 55, al primo Film Festival al quale l’Ambasciata d’Italia a Sarajevo [ndt: tentuosi nell’agosto del 1995] aveva portato dei film da proiettare, ma ci si incontrava anche ai concerti. Rischiavamo la vita per andarci, ma era importante in quel momento sentirsi vivi, invece che sopravvissuti.
Ci hanno legati anche i nostri incontri con i giornalisti italiani e la speciale amicizia nata con loro durante l’assedio, sotto le granate e durante il coprifuoco. Jovan aveva un grande rispetto per i giornalisti italiani, per la grande capacità di raccontare i fatti con precisione e obiettività alla propria opinione pubblica. È così che una sera sono venuti a cena da me Jovan, Adriano e Ivo, e durante la cena tutti e tre dopo le dovute canzoni cantate insieme si sono messi a fare la verticale sulle mani per dimostrare quanto fossero ancora in forma. Questa famosa verticale che Jovan ha fatto anche davanti agli studenti della Sardegna venuti a Sarajevo e al generale italiano Sabatelli al comando della Brigata Sassari, sul piazzale del cimitero ebraico nel dicembre del 1999. Mentre traducevo agli studenti la spiegazione di Jovan su dove si trovavano le prime linee dell’artiglieria nemica che bombardava la città senza sosta, per la prima volta ho capito quanto fosse vicino il pericolo e mi sono cedute le gambe. A volte è meglio non sapere.
Quando la situazione in Bosnia Erzegovina si è un poco stabilizzata e quando il mondo là fuori si è liberato dai pregiudizi, per quanto ancora oggi mi capita di sentirmi dire “Si spara ancora lì da voi?”, hanno cominciato ad arrivare a Sarajevo gruppi di scout, alunni e studenti in viaggio di conoscenza. Non so il numero di tutti questi giovani che chiedevano di incontrare Jovan. Ma tutti quegli incontri sono stati tradotti da me o da mio figlio Faris. E ogni tanto, quando era stanco, Jovan diceva: “E ora proseguirà a parlare la mia amica…”. L’ultimo viaggio insieme avremmo dovuto farlo a Milano, nel febbraio del 2019…
Amato Jovan,
in questo momento triste, la tua testimonianza e il tuo stile nello stare al mondo, lascia in noi il senso della vita. Davvero sarà strano per tutti e tutte noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerti e di fare un pò di strada con te, tornare a Sarajevo e non trovarti.
Avrai visto il fiume in piena di affetto e riconoscenza dedicato alla tua testimonianza, alla tua coeranza, al tuo stile elegante e giocoso di stare al mondo. Cercheremo di fare del nostro meglio per continuare nel cammino da te indicato.
Un abbraccio ai tuoi cari e a tutto lo staff dell'Associazione "L'Educazione Costruisce la Bosnia Erzegovina ".
Stanotte ciscuno a casa sua è un pò più solo, c'è tristezza.
Per tanti sei stato padre, cuore generoso e stella.
Jovan,camminare con te per le strade di Sarajevo era semplicemente divertente.. Vedere persone di tutte le età attraversare la strada per abbracciarti è stata una esperienza che non dimenticherò mai.
Ecco "Gli abbracci " di Sarajevo ad un uomo giusto che aveva deciso da che parte stare. Ha deciso di difendere i Sarajevesi indipendentemente dall'etnia, lui che era serbo. Ha disertato e per questo è stato arrestato.
Al contrario di tanti non si è arricchito con la guerra.
Io ho avuto il privilegio di bere qualche caffè nel suo piccolo appartamento in città. Un luogo sacro di memoria. Per rispetto ricordo di non aver fotografato, fino che non è stato lui a chiedermelo. Un appartamento semplice dove condividere con gli amici tanti ricordi. Poi, quando si schiudeva la porta di casa ed usciva in città, la sua vita era un film.
Ci manchi Jovo!
Non l'ho conosciuto direttamente ma mi ha emozionato un sarajevese sentire chiamarlo "papà" ... desidero riprendere le parole di Paolo Rumiz nella sua prefazione al Libro "Sarajevo Mon Amour ":
« lui serbo, da 40 anni in Bosnia, non ha avuto dubbi, al momento dell'aggressione alla sua terra adottiva. Non ha sentito il richiamo del sangue - che in quelle ore divideva secondo assurdi pedigree le masse impaurite dalla Slovenia al Montenegro - ma quello del territorio.
Anziché cercare la serbietà - Srpstvo, l'identità bizantina invocata a sproposito dal branco incaricato di fare a pezzi Sarajevo - lui ha scelto l'appartenenza, il Genius Loci, l'anima del luogo che i popoli slavi chiamano Zavicaj. Ha scelto l'amore per la sua città ...
Che vuoi che ti dica caro compagno Divjak. L'unica cosa che ci resta è l'amore per questa straordinaria terra e per questa città unica al mondo che tu hai difeso con onore e che hai continuato a onorare occupandoti degli orfani di guerra.
Posso dirti che ti ringrazio per quello che hai fatto, ignorando i briganti oggi al potere. Che la Bosnia viva. Sempre - Paolo Rumiz, 2007 »
Mi coglie naturalmente incredulo questa triste notizia. Zio Jovo, Generale difensore della Sarajevo assediata, fondatore della Fondazione “Istruzione costruisce Bosnia ed Erzegovina”, uomo tutta la vita rimasto sulla stessa sponda, quella della verità, Jovan Divjak se ne andato per sempre. Anche se all’età di 84 anni – con un percorso della vita straricco e pieno di obbiettivi raggiunti molto importanti – perderlo, ne sono consapevole adesso, sarebbe stato ed è comunque e sempre troppo presto. Lascia infatti un vuoto incolmabile. A noi bosniaci, agli europei, al genere umano.
Sarebbe un’occasione sprecata scrivere adesso qualcosa di essenziale e che riguarda una conoscenza quasi casuale e un’amicizia andata avanti per diversi anni, scrivendo dei dati anagrafici di Zio Jovo (così gli piaceva essere chiamato), oppure del suo percorso da soldato e da eroe della difesa di una delle città più multietniche di tutta la vecchia signora Europa. Alcune cose devo dirle però. Raccontate proprio da lui.
Anche se belgradese di nascita, aveva capito, ancora anni prima della guerra bosniaca, che quello di Sarajevo sarebbe stato per sempre il suo destino. Non ha tradito mai le proprie convinzioni. Nemmeno in quei primi giorni della sanguinosa primavera del 1992 che vedrà la sua Sarajevo incatenata dai criminali dell’esercito di Radovan Karadzic e Ratko Mladic, quando bloccò tutti gli armamenti leggeri della “Difesa Territoriale” (una specie di esercito regionale) e invece di consegnarli al quartier generale di allora – Armata Popolare Jugoslava – le consegnò ai cittadini di Sarajevo creando così le prime formazioni militari che per 4 lunghi anni difenderanno la propria città. Lui, serbo, nato a Belgrado.
Da quel giorno per tanti diventò “Il Generale serbo che difese la Sarajevo dai suoi”. Ma quanto sfortunato questo “inquadramento” di un uomo con uno spessore umano che dovremo ancora scoprire. Dal mio modesto punto di vista un uomo, soldato di professione, che ha difeso la cultura del vivere insieme, spesso sottolineata da qualche “europeista occasionale” ma anche da quelli veri, e da tutti i cittadini di Sarajevo. Tutti! E li difendeva dai criminali comandati da serbo bosniaci. Questi sono i fatti storici.
Comunque come tale non è mai stato accettato da quella parte dei “patrioti” sarajevesi o bosniaci per i quali essere un vero patriota bosniaco presumeva anche l’appartenenza all’etnia bosgnacco musulmana. Insomma parlo dei circoli vicini al “Partito del Azione Democratica” – SDA del presidente d’allora Alija Izetbegovic. Per questo motivo Zio Jovo sarà anche pensionato molto prima della fine dell’assedio. Quell’anno 1994, Zio Jovo fonderà la Fondazione “Istruzione costruisce Bosnia ed Erzegovina” la quale in questi 27 anni ha dato la possibilità di avere un livello d’istruzione medio alto e alto a un intero esercito di giovani bosniaci. Un vero esercito del nostro Jovan che gli sarà fedele per sempre.
Così Zio Jovo, dopo aver difeso la cultura di vivere insieme e il multiculturalismo, camminando da solo (sempre senza guardaspalle) sulle prime linee del fronte incoraggiando i difensori e i civili, aveva deciso di difendere anche il diritto alla istruzione alle fasce più vulnerabili. Altra battaglia da vincere. Sempre tra la gente, camminando a testa alta senza paura mentre nella vicina Banja Luka o a Belgrado sulla sua testa si scrivevano le taglie per presunti crimini di guerra. Arrivate persino a Vienna dove sarà per diversi mesi chiuso in un albergo in attesa di chiarimenti diplomatici e giudiziari. Tornerà alla sua Sarajevo vincendo anche questa ingiustizia. Abbracciandola e per essere abbracciato.
Per finire un fatto di cui la vecchia signora Europa sa poco, anche perché spesso Zio Jovo deve essere dipinto seguendo uno schema preciso. Come già detto, Zio Jovo dovrebbe restare “il Serbo che difese i patrioti sarajevesi, spesso soltanto di etnia bosgnacco musulmana, dai suoi”. Ossia uno che si era “venduto” alla politica che sosteneva la Bosnia, innanzi tutto i bosgnacchi musulmani e di conseguenza traditore dei suoi, dei serbi. Traditore di tutti serbi. Anche quelli, diverse migliaia, che a Sarajevo sopravvissero proprio grazie a lui.
In mezzo si infila, quasi timidamente, tutta la storia di un uomo coraggioso e onesto che rischiò tutto per difendere i valori in cui credeva racchiusi in una città martoriata pur sapendo che dalle colline circostanti circondate dai “suoi” per lui era riservata una morte sicura. Un uomo che alle spalle non aveva mai il vero sostegno di un establishment politico anche se voleva presentarsi al mondo intero come un patriota e alla guida di un Paese che subiva un’aggressione militare.
Lo ribadì Zio Jovo a dicembre del 1997 quando con una lettera decise di restituire al Presidente della Bosnia ed Erzegovina d’allora Alija Izetbegovic i riconoscimenti, le onorificenze e le insigne del Generale brigadiere dell’Armata delle Bosnia ed Erzegovina (AR BiH) in seguito alle indagini che testimoniavano diversi casi di uccisioni di civili nella Sarajevo assediata non di etnia bosgnacco musulmana, compiuti o ordinati dai militari della stessa AR BiH tra i quali alcuni ancora dopo la guerra ricoprivano cariche importanti nello Stato e nella gerarchia militare e i quali il Presidente Izetbegovic non volle mai processare e tantomeno privarli dalle onorificenze militari. Anzi, ci furono dei casi in cui per alcuni criminali di guerra furono organizzati funerali solenni statali.
Per me era molto doloroso quello che mi disse Zio Jovo quando ci siamo visti ultima volta. “Non pensavo in quegli anni di difendere la Sarajevo di oggi, ma non rimpiango, ho sempre difeso le persone deboli e mi è capitato di farlo proprio qui”. Il Mondo è Sarajevo e io auspico che Sarajevo, almeno per quegli eroi come Zio Jovo, resti sempre il Mondo. Piccolo ma aperto a tutti.
Ho incontrato la prima volta Jovan a Malga Cimana, provincia di Trento, per la presentazione di “Sopravvivere a Sarajevo”, libro che aveva curato la redazione di Bébert Edizioni di cui facevo parte.
Io e Barbara arriviamo un’ora prima dell’incontro, vedo Nicole Corritore, parliamo un po’ del più e del meno, mi presenta alcune persone e aspettiamo. Aspettiamo che arrivi il Generale.
Stranamente è in ritardo, ma la strada per arrivare in malga è davvero difficile da trovare. Nel frattempo conosco Francesco Mongera ed Eliana Gruber, è stata Marzia Bona che mi ha messo in contatto con loro, hanno organizzato l’incontro. Da quella chiacchierata nascerà poi un’altra collaborazione, nelle scuole questa volta.
Ad un certo punto arriva Jovan Divjak, lo vedo da lontano avanzare con passo deciso, è con Roberta Biagiarelli e Kanita Fočak. Bene, mi dico, sono davanti a quello che rimane del socialismo jugoslavo, il generale che ha organizzato la difesa di Sarajevo e che ora è presidente di un’associazione che si occupa di aiutare le persone in difficoltà. Del resto siamo qui per questo, per raccogliere fondi.
Appena arriva tutti lo abbracciano, lo baciano, lui fa la stessa cosa. Un tripudio di affetto, una festa. Poi ad un certo punto Nicole me lo presenta, lui inizia a parlare in francese e io in inglese, proviamo a capirci a gesti. Poi interviene lei, fa da traduttrice e Jovan mi racconta di quando ha battuto Kasparov a scacchi puntandogli una pistola da sotto il tavolo. Ridiamo tutti e tre, è una storiella buffa che stempera la tensione.
La presentazione vola via in un secondo, l’emozione è a mille, parliamo un bel po’. Nicole fa da moderatrice, Kanita traduce a Jovan, lui dice cose bellissime, potenti. È solido, piantato, verticale, inamovibile. Io mi sento molto fortunato ad essere lì e ad ascoltarlo.
Dopo la presentazione vado fuori a fumare, c’è il sole e mi sento da dio. Abbraccio Barbara, siamo entrambi increduli, abbiamo appena vissuto una delle esperienze più importanti della nostra vita. Dopo una serie di interviste e autografi esce, mi dice “bravo bravo”. Mi dico, lo dirà a tutti perché è una persona buona e gentile, ma i suoi complimenti me li prendo lo stesso.
Ci incamminiamo verso un belvedere distante un centinaio di metri, la strada è leggermente in salita, lui va su come un treno, io accompagno Kanita sotto braccio perché fa un po’ fatica a camminare. Rivolgendosi a me dice “il mio cavaliere”, Jovan risponde da lontano e ridono entrambi, non so di cosa, non capisco la loro lingua, ma rido anche io.
Mentre camminiamo Kanita mi racconta, in italiano, moltissimi aneddoti dell’assedio, della sua vita, dei suoi dolori. Mi sento una spugna che assorbe ogni cosa. Arrivati in cima, Jovan guarda il panorama e sorride, qualcuno gli scatta una foto, credo Roberta. La trovate qua sotto. È bellissima.
Un anno dopo, per il venticinquesimo anniversario della sua associazione, Jovan mi chiama al telefono ma sono a lavorare in osteria, è lunedì e il pranzo è una bolgia, non riesco a rispondere. Finisco il turno e mi trovo un messaggio in segretaria in cui, in francese, mi invita a Sarajevo. È un messaggio che non trovo più, purtroppo, ma faceva più o meno così:
“Po po po je suis Jovan Divjak, je vous invite à Sarajevo pour l'anniversaire de l'association Obrazovanje Gradi BiH ecc ecc »
Non sarà facile riempire il vuoto che Jovan Divjak ci lascia.
Non sarà facile perché bastava averlo incontrato anche solo una volta per apprezzarne il valore umano, la simpatia, la capacità di ironizzare anche sulle tragedie, ma soprattutto il sorriso. Un sorriso rassicurante, che metteva tutti e tutte a proprio agio.
Di fronte ad una persona di così grande spessore intellettuale e di irrefrenabile senso civico ci si sentiva accolti, ascoltati, apprezzati. Credo che il valore di Jovan lo si possa trovare non tanto in quello che ha scelto di fare durante il terribile assedio di Sarajevo, ma quanto in quello che è stato capace di fare dopo nel tentativo quotidiano di mantenere vivi i fondamenti dello spirito jugoslavo della convivenza pacifica. Cittadino del mondo e cittadino onorario di una Sarajevo sbiadita.
Jovan Diviak resterà nei nostri cuori sempre e lo ritroveremo sempre passeggiando per le vie di Sarajevo al nostro fianco, al fianco di tutti coloro che amano quella terra e lottano per la Pace e la Fratellanza.
Voglio ricordare Jovan Divjak con il testo che aveva scritto per il libro "15+10 teatro Zappa theater "
Un ricordo. Un pezzo che ci ha scritto gospodin Jovan Divjak. Buon viaggio druže Divjak.
I don Quijote in Bosnia Erzegovina
L’arte è nutrimento contro il fascismo, il nazionalismo e la disumanizzazione.
Le guerre nei Balcani alla fine del XX secolo hanno dimostrato l’impotenza della civilità di opporsi alle intenzioni distruttive della generazione disumanizzata di persone che, con le armi in mano e l’armatura sul corpo, creavano un “nuovo” mondo su fondamenta medievali! Accanto a un grande numero di vittime, il sacrificio personale, l’arte, la cultura e l’istruzione sono stati parte di un mosaico che ha lottato contro il mostro d’acciaio.
Nel 2015 Zappa Teatro Theater ha realizzato il progetto "Don Quijote ", insieme a dei giovani talentuosi attori bosniaco-erzegovesi. Don Quijote, come metafora, guarda il mondo tra realtà e illusione. Don Quijote e Sancho Panza rappresentano due mondi così opposti, ma altrettanto collegati tra loro perché non possono esistere l’uno senza l’altro. Il gruppo di artisti bosniaco-erzegovesi, sotto la direzione artistica dello staff di teatroZappatheater ha rappresentato il tema dell’eterna lotta tra il bene e il male, negli spazi all’aperto delle città di Tuzla e Sarajevo.
Per me la parte più emozionante di questa rappresentazione “viaggiante” è stata quella dedicata alle gesta eroiche di Alexander Langer. Il contemporaneo “Don Quijote Alexander”, che combatte contro l’indifferenza del Parlamento Europeo, dell’Europa, del Pianeta Terra, nei confronti delle vittime innocenti, bambini, donne e civili inermi della Bosnia-Erzegovina. Questo da noi è stata la cruda realtà.
Il regista, lo staff, lo sceneggiatore e gli attori, hanno dato tutto di se in questa rappresentazione. Entusiasmo, competenze e capacità di far capire al pubblico il significato della cultura e dell’arte, come strumento per opporsi a tutte quelle “deiezioni” sociali – fascismo, nazionalismo e populismo – nelle quali oggi si devono confrontare giovani anime che hanno il potenziale di costruire la pace, la tolleranza e l’amore per gli altri.
Jovan Divjak
Il Generale dell'esercito bosniaco che ha difeso Sarajevo. Fondatore e direttore dell’associazione “Obrazovanje gradi BiH ”
Misericordia e verità s'incontreranno,
giustizia e pace si baceranno.
La verità germoglierà dalla terra
e la giustizia si affaccerà dal cielo.
Jovan Divjak, incontrarti è stato un privilegio straordinario di cui custodirò il senso e il ricordo
Dall'archivio di OBCT
14 aprile 2021
Si è tenuto ieri a Sarajevo il funerale di Jovan Divjak. Se non ci fosse stato il Covid-19, sarebbe stato un moltiplicarsi di abbracci. Un ricordo
9 aprile 2021
Rispetto, affetto e cordoglio, per ricordare Jovan Divjak morto l'8 aprile a 84 anni. Un uomo che, per la sua scelta di difendere Sarajevo durante l'assedio, è diventato simbolo della resistenza alla distruzione della Bosnia Erzegovina multietnica
9 aprile 2021
Ieri 8 aprile è venuto a mancare Jovan Divjak. Con il suo operato e il suo carisma ha stretto forti relazioni con l'Italia. Ora sono in molti a ricordarlo con emozione
6 settembre 2013
Uno dei comandanti della difesa di Sarajevo da anni guida un'associazione che difende il diritto dei bambini all'istruzione. Il ricordo degli anni '90, la Bosnia oggi: colloquio con Jovan Divjak